Limbo: recensione del noir nel deserto australiano di Ivan Sen in concorso alla Berlinale

24 febbraio 2023
3.5 di 5

Una piccola comunità aborigena in un luogo dimenticato del deserto australiano e un poliziotto bianco che arriva a indagare su un caso di vent'anni prima. Limbo di Ivan Sen è un suggestivo noir presentato a Berlino. La recensione di Mauro Donzelli.

Limbo: recensione del noir nel deserto australiano di Ivan Sen in concorso alla Berlinale

Un uomo dai capelli rasati, lo sguardo perso, sullo sfondo di un deserto roccioso, accanto a una macchina del secolo scorso. È l’immagine ricorrente, quasi una sintesi visiva del noir esistenziale nell’outback australiano di Ivan Sen. Limbo, il titolo ma anche il nome del motel in cui questo poliziotto, che somiglia più a uno spacciatore, come gli viene ricordato da una bambina e la sua verità senza filtro, alloggia in un paesino nel nulla più sperduto di un territorio abitato da aborigeni. Ma Limbo potrebbe essere benissimo una definizione fedele di questo luogo oltre ogni concetto di marginalità, in una sorta di riserva nativa in cui sono dimenticati a sopravvivere un pungo di disperati che convivono con una dolorosa perdita di vent’anni prima.

Infatti Travis, il detective, un Simon Baker (The Mentalist) quasi più tormentato e immobile del panorama che lo circonda, sosia di Bryan Cranston in Breaking Bad, è inviato a riaprire un cold case, un caso irrisolto, relativo alla scomparsa di una ragazza indigena di quelle parti. L’estrema propaggine di una probabile nuova attenzione della polizia per la minoranza per eccellenza del paese dei canguri, anche se Travis sembra arrivato per sbaglio. Di certo, nessuno vuole parlare con lui, bianco. Ci sono tensioni evidenti a sconvolgere l’apparente placido immobilismo di questo luogo di un fascino ipnotico quanto decadente, fra dune e caverne, miniere e anime abbandonate.

L’indagine di Travis è paziente, mentre si pone in osservazione di ogni reazione e piccolo movimento, cercando di entrare nella stessa frequenza di con cui agiscono e soffrono gli abitanti. Un lavoro di scavo sociale che lo porta a cogliere una delle tante fratture, quella all’interno di una famiglia, con un anziano fratello del principale sospetto che sembra sparito e i testimoni in vita che non sembrano riuscire a superare quello che di terribile deve essere accaduto vent’anni prima. 

Limbo richiede attenzione e disposizione d’animo per cogliere la ricchezza di un territorio umano prima che geografico, apparentemente immobile, come i protagonisti che fanno di tutto, anche se non appare in superficie, per ottenere giustizia. Pieno di una compassione sommersa sotto strati di sabbia e mai esibita, che riemerge con difficoltà ma mostrandosi nella sua struggente purezza. La storia della costruzione di vicinanza umana in uno stato di crisi, senza fronzoli ma profondissima, proprio quando chi riemerge dalla rassegnazione pensava di non poterci più contare. 

Uno scenario di grande bellezza e desolazione che viene mostrato in ogni sua stratificazione, in bianco e nero, specie dall’alto a mostrare un terreno che sembra un alveare, fra dune e caverne. La prospettiva degli indigeni su un sistema giudiziario che sembra escluderli, raccontata da un regista indigeno come Ivan Sen, che mette in scena la vicenda con il punto di vista di un “diverso”, di un alieno catapultato nel Limbo, un poliziotto bianco. Anche lui, come tutti gli abitanti di quel luogo, è un’anima persa in cerca di salvezza e di risposte.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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