Lei mi parla ancora: la recensione del film di Pupi Avati
L'amore, la vita, la morte, l'immortalità che passa per il ricordo, la Bassa, la letteratura, il cinema. Pura PupiVision. Con un grande Renato Pozzetto. Ecco la nostra recensione del film Lei mi parla ancora, dal romanzo di Giuseppe Sgarbi
“Negli anni Cinquanta ci sguazzo”, dice Pupi Avati. E lo sappiamo bene. D’altronde - lo ricorda lui stesso - sono stati gli anni della sua formazione, e tutti noi, quale che sia la nostra età, sguazziamo negli anni della nostra formazione.
Nel presente, invece, dice sempre Avati, no. Il presente non lo capisce. Dagli torto: facciamo fatica a capire anche noi che abbiamo quasi la metà dei suoi anni o pure meno.
Non lo rifiuta mica però, il presente, Avati. Se lo fa spiegare, e lo mette in scena.
Come può. E come sa.
Perché sa, e sa bene, che dall’unione tra passato e presente, in Lei mi parla ancora - ma non solo, anche nella vita - può scaturire qualcosa di magico. Qualcosa che assomiglia al futuro. Che rimanda all’immortalità (“Non si spaventi”, dice Nino a Amicangelo, quando sta per mettersi a parlare proprio di quella cosa lì, dell’immortalità, che passa dall’amore).
A Pupi Avati non interessa inseguire il presente, il contemporaneo, lo spirito del tempo. Quello che incarna, dopo esserselo fatto spiegare, nel personaggio di Amicangelo, ovvero di Fabrizio Gifuni.
A Pupi Avati interessa la malinconia del passato, la nostalgia per quel che è perduto, e che però gli parla ancora, ci parla ancora, ed è capace di risuonare nel presente, e di accavallarsi con esso come un fantasma, ectoplasma trasparente che lascia il segno su ciò che sfiora. Capace di - non vi spaventate - insegnare.
Pupi Avati è Nino Sgarbi, protagonista di un grande amore, narratore di una storia che sembra remota e che è più attuale di tanta attualità. Frammenti di passato - abiti, luoghi, abitazioni, atmosfere - cristallizzati nella giada della memoria, resi esemplari e fatti risplendere nel presente, illuminandolo.
L’amore raccontato da Lei mi parla ancora, quello di Nino e Rina, immenso e straordinario, non è solo idillio, o romanticismo idealizzato. È costruzione, impegno. Manutenzione.
È quel che serve a una coppia per andare avanti, malgrado le difficoltà, o grazie a esse. “I caratteri difficili non solo quelli più interessanti?”, dice Nino a Amicangelo.
E allora i ricordi di Nino sono anche quelli amari (che belle quelle scene in cui la giovane Rina entra in casa di Nino, per vivere con la sua famiglia, e tutto sembra dover andare per aria, distruggersi, per poi tornare a vivere: come è tornato a vivere il Polesine dopo l’alluvione che, guarda caso, Avati racconta proprio in quel momento).
È quell’amarezza che fa parte della vita, e del ricordo, e di tanto cinema di Avati, mai dolciastro, ma vivo proprio perché portatore di una nostalgia complessa, sfumata, variegata.
Nino è Avati. Nino è Renato Pozzetto (bravo, bravissimo, composto e commosso). Avati, quindi, è Pozzetto.
Sillogismo facile, ma esemplare della concordanza d’intenti, di sentimenti, di malinconia, tra la storia di Sgarbi, lo stile di un regista, la trovata e la capacità di un interprete.
Lei mi parla ancora mescola i piani, le età, fa interloquire personaggi in fasi diverse della loro vita, gioca con la metafisica come certi film orientali. E fa parlare il passato nel presente: Nino con Amicangelo, certo, ovvio. Ma non solo.
Con Avati, Nino lo cambia, quel presente. Lo spinge al futuro, mentre lui si prepara ad abbracciare l’eterno, a uscire dal tempo, aggrappandosi al passato.
Nino, che parla ancora con Rina anche dopo la sua morte, la tiene così in vita, e dei suoi ricordi fa letteratura e, con Avati, cinema. Come Wanda, che, per tenere in vita Visione (perchè lui le parli ancora) crea tv.
PupiVision.
“L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.
Amicangelo non riconosce la citazione fatta da Nino, giocando a quel gioco che faceva col fratello della sua amata. Quello era colto, questo no. Passato e presente.
Ma non importa, sorride Pozzetto, Nino, Avati. Non ci sarà la conoscenza, ma c’è la comprensione. Amicangelo registra, ed elabora.
Il ricordo che porta, il ricordo che lascia. Vale anche per Lei mi parla ancora. Per Avati. Per un cinema anziano, non decrepito ma pieno d’esperienza. Che legge con fatica il presente, ma lo accoglie. Che sbaglia, ma non demorde. Che emoziona con quel riserbo e quella compostezza del sono del suo protagonista.
A dispetto della forma, che è a tratti ingenua e sperduta e come l’anzianità, a tratti stonata come un cappello indossato a tavola, a cena.
A modo suo, cinema immortale, perché fuori dal tempo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival