Le streghe di Salem - la recensione del film di Rob Zombie
Il fatto è che Rob Zombie delle mode se ne frega.
Il fatto è che Rob Zombie delle mode se ne frega. Se ne frega da 10 anni, da quel 2003 in cui sganciò la bomba La casa dei 1000 corpi, oggetto radicale e (per questo) fuori dal suo tempo che fece impallidire di colpo tutti gli epigoni contemporanei.
E se ne frega delle aspettative dei fan, visto che dopo quell’esordio fu la volta del diversissimo ma ancora più bello La casa del diavolo, western crepuscolare e struggente mascherato da horror.
Ora, dopo scelte comunque spiazzanti e personali come quelle dei due Halloween, Zombie cambia ancora una volta, radicalmente, registro: e firma un horror satanico e psichedelico che ha il ritmo lento, ponderoso e solenne, e le sonorità acide, stridule e disturbanti del black e del doom metal.
Partendo da una storia, quella richiamata dal titolo, che è una delle più radicate vicende di folklore americano, Le streghe di Salem si dipana ipnotico, raccontando una witch-story contemporanea dallo strepitoso anacronismo, trovando proprio nella musica il trait d’union perfetto e perverso tra un passato e un presente diversissimi eppure uguali. Perché il percorso della Heidi di Sheri Moon, perfetta nella parte, è reso travagliato da possessioni e dipendenze che travalicano quelle diaboliche, le quali assumono anche una valenza metaforica, e parla comunque di una rabbiosa e dolorosa reazione ad una struttura patriarcale e paternalista dalle quali l’unica emancipazione possibile e quella di una rivolta violenta e radicale.
Questo racconto, pessimista e gloriosamente rassegnato, Rob Zombie lo mette in scena con modalità che ne confermano un coraggio quasi dissennato, una voglia di osare che si traduce nello spingersi oltre la soglia dell’atteso anche a costo di suonare una nota stonata.
Per stessa ammissione del regista, i riferimenti principali de Le streghe di Salem sono quelli di nomi pesanti e ingombranti come Stanley Kubrick e Ken Russell, ed è possibile rintracciare nel film perfino influenze polanskiane o del Dario Argento di Suspiria e Inferno. Ma Zombie non copia né scimmiotta, né omaggia con maggiore o minore deferenza: semplicemente si cala nello spirito acido e dilatato di un cinema seventies catturandone con personalità l’essenza e la forza visionaria e drasticamente iconoclasta.
Procedendo con ritmo lento e sincopato, Le streghe di Salem osa sempre di più, libero da preconcetti e sovrastrutture, facendo sprofondare in un incubo malsano e angosciante disseminato da immagini cinematografiche di grande forza, evocativa e disturbanti.
Zombie, che ha girato con due lire e in tutta fretta, non ha bisogno di tripudi ematici o di abusare in effetti speciali per catturare e strizzare la mente dello spettatore: gli basta usare la forza del cinema e la sua capacità di stupire con poco. Di quel cinema fantastico, horror e noir pionieristico e in bianco e nero che, esplicitamente e non, nei suoi film, nella sua musica e nei suoi concerti Zombie non perde occasione di ricordare come influenze primarie e ineludibili.
E ancora una volta, con Le streghe di Salem, il regista regala un film che se la ride dei deliri postmoderni e ipertecnologici che sbancano i botteghini di mezzo mondo e li ridimensiona, mettendoli all’angolo con un solo movimento di macchina o una sola, semplice e potente invenzione visiva.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival