Le leggi del desiderio: recensione della commedia romantica di Silvio Muccino

25 febbraio 2015
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L'amore e l'autostima ai tempi dei life coach.

Le leggi del desiderio: recensione della commedia romantica di Silvio Muccino

Sono passati otto lunghi anni dal giorno in cui Silvio Muccino, fratello dell'allora più noto Gabriele, si è lanciato nella mirabolante e impegnativa avventura di fare il regista e di girare un film fuori dal coro in cui ricoprire anche il ruolo di attore protagonista. Già all'epoca si intuiva nel ragazzino con la zeppola di Come te nessuno mai il desiderio di staccarsi prepotentemente dalla rappresentazione vorticosa, impietosa ma a suo modo rassicurante di ansie e problematiche di personaggi borghesi irrisolti e autoreferenziali. Si percepiva soprattutto, seppure all'interno di una narrazione a volte non pienamente a fuoco, un amore sincero per l'umanità raccontata e un'autentica dolcezza di fondo.

Quest'ultima caratteristica Muccino jr. non l'ha mai persa, trasformandola – ne Le leggi del desiderio – nel tessuto connettivo di personaggi quieti, interiormente ricchi e accomunati non dall'estrazione sociale, ma da una remissività che li inchioda fuori dalla porta dell'autoaffermazione.
Matilde Silvestri, Ernesto Colapicchioni e Luciana Marino rappresentano tutti e tre la doppia anima dell'opera terza del regista romano, un film che, prima di diventare commedia romantica, ci parla di terrore di annullarsi per l'altro, di ricerca spasmodica di visibilità e di un mondo inesorabilmente diviso in vincenti e perdenti.

Già, dopo gli States sembra che sia toccata in sorte anche a noi l'abitudine di confondere il reddito con la dignità e la tendenza ad affidarci ai testosteronici consigli di motivatori professionali, altrimenti detti "life coach".
Insomma, se nel '99 il Frank T.J. Mackey di Magnolia suonava familiare al pubblico americano, oggi per noi è spaventosamente attuale il guru dell'autostima Giovanni Canton, che Silvio sta bene attento a non portare mai all'esagerazione, complice lo studio attento di modelli in carne ed ossa, non ultimo l'Anthony Robbins tenuto in grande considerazionw da Bill Clinton e Donald Trump.
La sua folle energia contagia la prima mezz'ora di film, che diventa spettacolare, vibrante, inondata di luce, forse eccessivamente forsennata e adrenalinica, ma comunque funzionale al rallentamento – o meglio il raccoglimento – dell'ora e un quarto successiva, nella quale lo show scolora nella malinconia.
E allora il ritmo rallenta, la ribalta si contrappone ai compromessi della vita e delle sue stagioni, e si fa strada la domanda che sottende l'intero film: dove finisce la maschera e dove comincia la verità?

Non è la prima volta che qualcuno si interroga sulla legittimità delle continue rappresentazioni a cui l'essere umano ricorre per piacersi e piacere, e soprattutto Le leggi del desiderio non è il primo film in cui uno "sfigato" faticosamente rivoluziona la propia esistenza, ma nella Muccino-maniera di affrontare l'argomento c'è una grande onestà intellettuale, c'è un regista che si mette in gioco e che, assecondando la propria parte femminile, non si vergogna a definirsi l'ultimo romantico. Il ragazzino è cresciuto? Certo e ci prova gusto a buttare giù elenchi di inquadrature e a sperimentare una recitazione più sobria, più modulata.

Il resto lo fanno Nicole Grimaudo, Carla Signoris e soprattutto Maurizio Mattioli, per cui finzione e realtà hanno tristemente coinciso. E' il suo sguardo dolente il nostro ricordo più vivo de Le leggi del desiderio, film dalla sceneggiatura non sempre di ferro ma in ogni modo felicemente non riconducibile alle solite categorie del nostro cinema che sceglie il lieto fine.





  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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