Last Summer - la recensione del film con Rinko Kikuchi
Nella sezione Prospettive Italia un debutto intenso e di grande eleganza.
Una donna giapponese ha perso – non sappiamo per quale motivo – la custodia del figlio di 6 anni. Il bambino, Ken, ha alle spalle un nonno paterno potente e un ricco padre, inglesi o americani, che le consentono 4 giorni per poterlo salutare, prima di lasciarlo per molti anni. L’incontro avviene su uno yacht ancorato al largo della costa pugliese, alla presenza vigile di un equipaggio addestratissimo e ligio al dovere. Lusso contro semplicità, impotenza contro potere, in un incontro/scontro anche culturale tra Oriente e Occidente.
Ci sono film che nascono in modo sorprendente come fiori nel fango. Senza preavviso, fuori dalle mode e dai provincialismi, lontani dai toni gridati e dalle sceneggiature troppo scritte, che suonano immancabilmente false. Uno di questi inattesi regali è proprio Last Summer, concepito e girato in unità di tempo e di luogo con essenzialità minimalista, in cui quello che conta, come sottolinea il cosceneggiatore IgorT, è il “kororo”, il cuore spirituale delle cose.
La storia della separazione tra una madre e un figlio, di uno sradicamento culturale, di colpe e ansie inesprimibili a parole è raccontata con una messa in scena pulita, nitida, chirurgica, che non è mai fredda ma lascia affiorare pian piano, scena dopo scena e gesto dopo gesto, un dramma umano che all’inizio ci incuriosisce come se stessimo per assistere a un thriller e che emergendo nel finale con tutta la sua forza quasi primordiale, avvicina lo spettatore alla madre “indegna” interpretata con straordinaria espressività da Rinko Kikuchi. In questo senso il personaggio del comandante (l’attore olandese Yorick Van Wageningen) compie lo stesso percorso del pubblico: la sua impassibilità iniziale si trasforma pian piano in empatia nei confronti della madre.
Come i film sospesi in nessun dove, anche Last Summer permette ai protagonisti - nella zona franca della lussuosa imbarcazione - di vivere la storia al di fuori di ogni condizionamento sociale e di ritrovare il sentimento necessario rifiutando il superfluo del lusso e dei ruoli. In un film in cui le parole sono contenute e significative, come lo è il passaggio dall’inglese al giapponese, la rappresentazione degli sguardi perduti, rifiutati e infine scambiati tra madre e figlio sottolinea la distanza da colmare tra i due, che in quattro giorni compiono un percorso di vita definitivo e non consolatorio che li unirà per sempre.
Vedendo un film come Last Summer, prezioso come un haiku, ci viene da pensare che ce ne meriteremmo di più di opere del genere e che non è un caso che questo progetto abbia avuto l’apporto di tanti nomi di prestigio: dalla costumista premio Oscar e produttrice Milena Canonero alla montatrice di Michael Haneke, Monica Willi, al citato IgorT e all’ottimo cast internazionale (senxza dimenticare la bella fotografia di Filippo Corticelli e l'apporto della scrittrice giapponese Banana Yoshimoto).
E forse non è un caso nemmeno che un regista giovane e già così maturo si sia dovuto allontanare dall’Italia per inseguire i suoi sogni e tornarci poi con questo film. In un paese in cui il chiasso inutile impedisce spesso di sentire i battiti del proprio cuore, gli auguriamo di trovare un pubblico che sappia ancora ascoltare.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità