Laila in Haifa: recensione del film di Amos Gitai in concorso al Festival di Venezia 2020
Il regista israeliano Amos Gitai sceglie la sua città, la Haifa multiculturale e portuale, per raccontare cinque notti arabe e israeliane, che si muovono e si confrontano in un locale in Laila in Haifa, in concorso a Venezia 77.
Gli spazi sono sempre cruciali nel cinema dell’architetto prestato al cinema Amos Gitai. Quelli occupati dai personaggi, ma anche quelli in cui si muove la macchina da presa e quelli al di fuori dell’inquadratura, in cui accadono delle cose che deduciamo solo dal sonoro, o dalle conseguenze poi mostrate nell’inquadratura. È un balletto costante, una lotta contro il montaggio spesso vinta dai piani sequenza, come accade in quello iniziale di Laila in Haifa. Siamo introdotti in una zona dinamica se non malfamata della città portuale, una delle più miste di Israele, oltre a quella in cui Gitai è nato.
Una macchina prosegue di notte lungo un binario del treno, viene bloccata da due energumeni, che costringono l’autista a scendere e rubano l’auto, solo dopo averlo picchiato per bene lascciandolo malconcio. Dolorante a terra, viene aiutato dopo un po’ da una donna, che lo aiuta a rialzarsi e a entrare, poco più in là, in un locale, il Fattoush, che ospita anche una mostra di fotografia che si inaugurerà proprio quella sera. Il fotografo protagonista, un attivista israeliano, è proprio lo sfortunato.
Siamo introdotti in questo modo nella storia, già avvisati della tensione che ci attenderà nel corso di una serata in cui conosceremo vari personaggi, su tutti cinque donne capitanate dalla Laila del titolo. Una ronde di persone di ogni genere, età, stato sociale ed emotivo. Arabi, israeliani, coppie in crisi e carriere che potrebbero decollare, come colonna sonora, continuamente alternate, le lingue semitiche, dall’arabo all’ebraico, come succede a Haifa, mentre i treni continuano a passare, dando la sensazione della precarietà del club e dei sorprendenti personaggi che lo popolano nel corso della nottata. Il Fattoush assomiglia a uno di quei posti che non mancano in ogni latitudine, rifugio per universi distanti eppure avvicinati da qualche bicchiere, solitudine o voglia di confessarsi/ascoltare.
Laila, in arabo nome proprio mentre in ebraico significa “notte”, è la direttrice della galleria e si trova al centro di questo girone confuso, in cui ognuno per qualche minuto diventa protagonista, minaccia, è un moderato o un estremista delle due fazioni. Come spesso gli accade, Gitai usa il filtro dell’arte, regalandolo anche ai suoi protagonisti, per conciliare estremi opposti, riunendoli per una volta in un unico posto, con la metaforica speranza che si insulteranno, prenderanno a pugni, canteranno, reciteranno monologhi d’amore o di tollenza; il tutto senza armi o razzi, né vittime ufficiali o collaterali.
Sempre in movimento, brutale e sensuale, frenetico e ostico, sudato e a decibel notevoli, il film di Gitai rischia però di rimanere vittima del calderone che vuole creare, regalando una babele di dinamiche spezzettate, appena accennate, frastornanti, in un gioco che diventa un po’ sterile e si finisce per seguire con un coinvolgimento che va scemando con l’andare avanti della serata. Laila in Haifa presenta troppi sapori, non riuscendo a valorizzarne uno dopo l’altro, ma sommergendoli con una nota isterica che invade il resto come quando si esagera con il limone nel fattoush, contorno mediorientale che regala tanti sapori misti, anche contrastanti, che Gitai ha voluto mettere in scena in una notte, in un locale.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito