Lady Macbeth: la recensione del dramma in costume britannico dell'esordiente William Oldroyd
Un durissimo ritratto di una donna che non cede mai.
Questo non è un adattamento shakesperiano. Avvertenza importante vista la proliferazione di un autore (anche) per il cinema che non conosce crisi. L’opera da cui è invece tratto Lady Macbeth è una novella russa del 1865, scritta da Nikolaj Leskov e già adattata da Shostakovich in un’opera negli anni 30 staliniani; interessante conferma di come il bardo influenzasse l’immaginario artistico anche 150 anni fa nella grande madre Russia. Non stupisce come il drammaturgo William Oldroyd, molto apprezzato come direttore dello Young Vic Theatre, possa ritenerla attuale e scegliere questa storia per esordire al cinema.
La vicenda viene spostata nell’Inghilterra rurale (e inospitale) del 1865 quando una giovane donna, Katherine, subisce una sorta comune a tante: viene costretta a sposare qualcuno che non solo non ama, ma che ha anche il doppio dei suoi anni. In dote si trova a gestire una famiglia spietata e priva di ogni slancio umano. Il suo ruolo è quello di garantire un futuro alla genìa, puro strumento subordinato in famiglia e nella società, in maniera non troppo dissimile alle bestie da stalla.
La notevole differenza che rende la storia di Katherine decisamente attuale è la sua ribellione a questo genere di convenzioni. Non accetta la sua sorte, ma combatte per prendere in mano il futuro, fino a diventare una vendicatrice spietata. Inizia una storia d’amore appassionata con un giovane operario alle dipendenze del marito, decide che vuole vivere una vita all’insegna dell’indipendenza e per farlo non si ferma di fronte a niente e, soprattutto, nessuno. Oldroyd dimostra una maestria ammirevole nella composizione delle immagini, nel delineare il soffocamento che regna dentro quelle mura attraverso piccoli particolari, la minore o maggiore presenza di spazio libero intorno ai personaggi ripresi. Molto lontano da ogni possibile critica di teatralità, Lady Macbeth respira al ritmo della sua protagonista: ora trattenuto, ora accelerato, ma sempre imbrigliato in una sobria eleganza formale che rende spesso soffocante il film, tanto quanto la vita di Katherine.
Oldroyd si discosta dal testo orignale aggiungendo interessanti elementi, come un ulteriore alterità razziale, oltre che sociale o di genere. Il senso dell’etica perde valore in una partita a scacchi spietata in cui conta solo il raggiungimento di un obiettivo immediato, ancora una volta rendendo le dinamiche fra i personaggi più simili alla convivenza di bestie feroci in un ambiente circoscritto. In questo contesto lo spettatore è sollecitato nei suoi istinti morali, messo alla prova da una eccellente giovane interprete, Florence Pugh. Rende così bene il suo passaggio da giovane ragazza innocente a mostro manipolatore da farci sperare che ce la faccia, per quanto inumane siano le sue azioni.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito