La vita facile - la recensione del film
Se dovessimo riassumere, o racchiudere La vita facile in una frase, un giudizio, potremmo definirlo, insieme a Stefano Accorsi, un “film in cui niente è come sembra”.
La vita facile - la recensione del film
Se dovessimo riassumere, o racchiudere La vita facile in una frase, un giudizio, potremmo definirlo, insieme a Stefano Accorsi, un “film in cui niente è come sembra”. Muovendosi all'interno di un territorio che ben conosce, e cioè la commedia, percorsa e ripercorsa cercando di non tralasciare mai l'impegno o comunque la riflessione intelligente, Lucio Pellegrini parla del presente citando il passato, vira dal melodramma al giallo sentimentale, segue il filone generazionale senza dimenticare di alludere alla grande commedia all'italiana. Infine, racconta la disagiata Africa rifiutando quei patetismi e sentimentalismi che vengono spesso suggeriti da una macchina da presa che indugia su volti sofferenti e scenari di povertà. Ma andiamo con ordine.
Attraverso la vicenda dei due medici borghesi quarantenni Mario e Luca, che rispetto ai protagonisti di Figli delle stelle non sono precari che lottano per una qualità di vita decente, il regista individua una netta distinzione fra l'italiano che accetta “il sistema”, con i suoi soldi sporchi, i suoi agi e la sua allegra tracotanza, e l'italiano che rifiuta la società che lo ha allevato nella bambagia negli edonistici anni '80 e '90 e che, invece di lottare per il cambiamento, sceglie la fuga. I protagonisti maschili del film, insomma, rappresentano i vizi e le virtù di un paese in cui si tifa contro e nel quale, “nel mezzo del cammin di nostra vita”, siamo ancora soprattutto figli incapaci di gestire il carisma dei grandi vecchi.
Squisitamente contemporanei anche nei tradimenti e nei balletti dei sentimenti, i dottori di Favino e di Accorsi affondano però le loro radici in una tradizione culturale e cinematografica d'altri tempi, gli anni '60 di Ettore Scola, in primis, e del suo Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? Ai Sordi e ai Manfredi di quel film di molti altri titoli dell’epoca, somiglia tuttavia di più Pierfrancesco Favino, che stando bene attento a non calcare troppo la mano, condensa nel suo romano calciofilo e dalla battuta pronta la simpatia dei tanti italiani fittizi interpretati, per esempio, da un Christian De Sica, e l’antipatia di tutti quegli italiani veri che siamo abituati a incontrare negli studi specialistici, al circolo, al semaforo. Lungi dall’esaurirsi in quest’unica dimensione, che lo renderebbe poco più di una macchietta, il personaggio va incontro a felici cambiamenti e a svolte improvvise, complice un ambiente - l'Africa – che ha la capacità di portare alle estreme conseguenze i sentimenti degli stranieri che lo abitano, risuscitando passioni ancestrali e pulsioni sopite.
Lo stesso accade a Luca e soprattutto a Ginevra, la donna amata dai due amici di un tempo che grazie a Vittoria Puccini si arricchisce sempre più di un’ingannevole ambiguità. E’ lei la vera rivoluzione del film, che lungi dall’essere misogino, restituisce con accuratezza una tipologia femminile precisa in cui la fragilità nasconde un’innata attitudine alla manipolazione di emozioni e di persone. Un po’ femme fatale, un po’ “gatta morta”, Ginevra assicura a La vita facile la svolta verso il thriller sentimentale fatto di tradimenti incrociati. L'unico rammarico è che il passaggio avviene in maniera troppo brusca e repentina, con il sacrificio di snodi narrativi fondamentali.
Migliore la parte centrale del film, in cui, lasciate da parte la goliardia e le goffagini dell’italiano all’estero e avviata la storia, l’immenso Kenya si fa spazio nell’economia della vicenda e, con i suoi interrogativi sull’impetuosità della natura e sui labili confini fra la vita e la morte, ci entra dentro di prepotenza.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali