La Trama Fenicia, la recensione del film di Wes Anderson in concorso al Festival di Cannes

18 maggio 2025
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Anderson conferma uno stile, una stilizzazione estrema e un'idea di cinema non più facile da digerire. Ma questa volta c'è del calore umano in più. La recensione di La Trama Fenicia di Federico Gironi.

La Trama Fenicia, la recensione del film di Wes Anderson in concorso al Festival di Cannes

Ancora gli anni Cinquanta, ma non quelli tra Happy Days, cartoni Warner e fantascienza, tutti americani, di Asteroid City, ma gli anni Cinquanta dell’Europa dei primi grandi magnati, di quell’Europa che ha superato le guerre di Grand Budapest Hotel ma che è ancora, pur sempre, il Vecchio Continente.
Ancora un padre, non tanto capace a farlo, e che dovrà affrontarne di tutti i colori per imparare a esserlo (e essere un uomo migliore).
Ancora la stilizzazione estrema e non facile da digerire che è tipica degli ultimi film di Wes Anderson, ma questa volta animata da personaggi e sentimenti capaci almeno di ricordare il calore (magari bianco) delle sue prime opere. Sarà forse che il film è dedicato a Fouad Malouf, il padre di sua moglie Juman, recentemente scomparso: e questo qualcosa avrà smosso, così come pure l’essere diventato padre. Anche per uno come lui, che si ostina a mettere in scena simmetrie esasperate, personaggi idiosincratici, e che è ossessionato da décor e dettagli come se stesse lavorando a installazioni artistiche e museali, più che a un film.

Ce lo avevano venduto come un film di spionaggio, La Trama Fenicia, ma lo è solo in parte: perché la storia è quella del ricchissimo uomo d’affari, avventuriero e filibustiere Zsa-zsa Korda, temuto da tutti e odiato dai suoi rivali, che più volte - e inutilmente - cercano di fargli la pelle. La storia di un uomo spericolato e senza scrupoli che, per la sua ultima scommessa affaristica, rischia il tutto per tutto e per salvare progetto e patrimonio parte per convincere uno a uno i suoi cinque partner commerciali a coprire parte della cifra che a lui improvvisamente, per una manovra di borsa ordita dagli americani che lo vogliono sabotare, a lui manca.
Inutile dire che tutto questo seguirà coordinate bizzarre e paradossali, e che personaggi e figure che Zsa-zsa incontrerà sono tipicamente andersoniane (e interpretate da attori andersoniani). Più utile, ma non sorprendente, dire che Zsa-zsa porterà con sé la maggiore dei suoi dieci e tutti e dieci negletti figli, una ragazza che stava per prendere i voti e che lui nomina sua unica erede universale (interpretata da Mia Threapleton, nuova entrata nella famiglia cinematografica di Anderson).

Allora, certo, La Trama Fenicia è un film d’avventura nello stile di Anderson, un film che se è di spionaggio è in qualche modo di spionaggio industriale, e come tutti i film dell’americano trapiantato in Europa è un film su padri e figli. E però, in fin dei conti, l’impressione è che La Trama Fenicia, svagato e divertito, sia un film sulla morte. E quindi sulla vita.
L’abbiamo detto all’inizio: la dedica, sì, ma anche il fatto che il film si apra con un attentato a Zsa-Zsa che precipita col suo aereo, viene dato per morto, ma che per l’ennesima volta sopravvive. Solo che stavolta se l’è vista brutta, e addirittura inizia a essere perseguitato da paradossali visioni dell’oltretomba, e di una sorta di giudizio divino (e ve la ricordate, no, la figlia quasi suora?).
Zsa-zsa torna in qualche modo dai morti ma la sua vita non cambia. Non subito. Ci vorrà del tempo, ci vorranno conti da far tornare e altri da saldare, ci vorranno tutte le sue tappe di un viaggio che non sarà una via crucis, ma insomma, e ci vorrà imparare qualcosa da sua figlia. Ecco allora che solo dopo tutto questo, solo alla fine del film che lo vede protagonista, Zsa-zsa non solo non muore, ma cambia vita. La parabola non è solo semplicemente anticapitalista, ma qualcosa di più, almeno nelle intenzioni di Anderson: qualcosa di familiare, umano, spirituale.

Poi certo, tutto questo è schiacciato, assoggettato, incasellato e costretto dentro quella struttura estetica e formale che ben conosciamo, e che più di tanto non concede (più) a racconto, temi e sentimenti. Tutto è ostentatamente artificioso, vezzosamente studiato, e si rimpiangono sempre le disordinate libertà formali delle Avventure acquatiche di Steve Zissou (credo di averlo già detto, che per me è il capolavoro di Anderson). Tuttavia qualcosa, piccola, forse qui si sta allentando, e speriamo bene per il futuro. E però va anche riconosciuto che quella lunga sequenza su cui scorrono i titoli di testa, col Zsa-zsa di Benicio del Toro che si riprende dall’incidente aereo immerso nella vasca da bagno e assistito da infermiere che gli recano prelibatezze e champagne, inquadrato alla De Palma, dall’alto e in ralenti, riesce a avere un fascino non indifferente.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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