La sala professori: la recensione del film candidato all'Oscar
Presentato alla Berlinale 2023, e candidato tedesco all'Oscar come miglior film internazionale, quello di İlker Çatak è un film che parla di scuola, di società, di polarizzazione, di noi. Bravissima la protagonista Leonie Benesch. La recensione di La sala professori di Federico Gironi.
Pochi giorni fa, di ritorno dalla Berlinale, ironizzavo sui social su una certa quale rigidità teutonica che, di fronte alla regola, alla prescrizione, alla prassi e al modello standard, non permette alcuna deviazione o elasticità, nemmeno quando il buon senso, o la praticità, vorrebbero altrimenti.
In qualche modo è, questo, uno dei temi che vengono affrontati in La sala professori, film tedesco candidato all’Oscar 2024 come Miglior Film Internazionale, che proprio alla Berlinale (ma del 2023) ha avuto al sua prima mondiale.
Perché la storia di Carla è, anche, una storia di procedure da rispettare, di imperativi ideali dai quali ci si rifiuta di deviare, di protocolli - formali o informali - ai quali attenersi. E, poi, è anche una storia sul funzionamento della scuola, e quindi della nostra società.
Una storia che parla a tutti noi, di tutti noi.
Carla è un’insegnante. Professoressa di matematica e di educazione fisica (strana accoppiata, certo, ma tant’è) in una scuola tedesca. I suoi ragazzi hanno 12 anni. Da noi sarebbero in seconda media.
Carla è giovane, appassionata, legata ai suoi studenti. Meno a certi colleghi, con i quali i rapporti sono un po’ tesi, specie dopo alcuni interventi non proprio ortodossi, e un po’ prepotenti, utilizzati per individuare, proprio nelle sua classe, tra i suoi ragazzi, il responsabile di alcuni furti che stanno avvenendo di recente nella scuola.
Carla è Leonie Benesch, davvero brava, l’attrice dai capelli rossi che nella gradevole serie tv tratta dal “Giro del mondo in 80 giorni” di Verne (la trovate su RaiPlay) era un’appassionata e intrepida giornalista in viaggio con Phileas Fogg e Passepartout, e qui è altrettanto appassionata. Altrettanto intrepida.
Perché Carla, dopo aver visto accusare ingiustamente i suoi, si innervosisce, si mette di traverso. Si mette in testa che il ladro possa non essere uno studente, ma un insegnante. E, per dimostrarlo, adotta modi e metodi non ortodossi, un po’ indelicati, che scatenano una serie di reazioni complesse. Finendo per essere invisa sia ai colleghi che agli studenti.
In particolare al brillante Oskar, che farà di tutto per renderle la vita difficile.
İlker Çatak e Johannes Duncker (regista il primo, sceneggiatori entrambi) volevano raccontare la scuola, dove per scuola si intende molto di più del luogo dove si vanno a imparare nozioni di varie materie. La scuola di questo film è, vorrebbe essere, un luogo di educazione alla vita e alla convivenza sociale. E specchio della società finisce per l’esserlo anche nei modi e nei risvolti meno edificanti. Nei suoi equilibri fragili, figli di tensioni contrapposte messe in scena, metaforicamente, quando Carla cerca di ricompattare la sua classe con un esercizio in cui i ragazzi dovrebbero fisicamente sostenersi a vicenda per non cadere.
Il risultato di tutto questo è un film che apre numerosi interrogativi, e che interpella direttamente la morale e l’etica degli spettatori.
Non c’è dubbio che noi, noi che guardiamo, siamo subito portati a solidarizzare con Carla, professoressa che porta umanità e idealismo in un contesto in cui di predica “tolleranza zero” e dove il cinismo pare aver contagiato buona parte della classe insegnante. E poi però, quando Carla stessa finisce col cadere in errore, pur spinta da buone intenzioni, e le cose si complicano, ne vediamo i limiti. Grazie al cielo.
Perché nessuno è perfetto, e solo facendo i conti coi nostri limiti possiamo migliorarci.
Carla si vede sempre più isolata e fraintesa dai colleghi, rifiutata dai ragazzi per cui non è più la prof simpatica, messa in croce da quell’idealismo un po’ ottuso che solo da adolescenti si può avere, ed è perdonabile. Entra in crisi, Çatak si concede pure un paio di sequenze quasi oniriche, che derogano momentaneamente al teso naturalismo del tutto, per mostrare la sua confusione, e i suoi dubbi.
Ma, lì dove tutti - adulti e non - pensano solo a soluzioni di salvaguardia di sé, dello status quo, del quieto vivere, Carla è l’unica a pensare in maniera non egoistica. Durante una riunione tra insegnanti, una collega commenta quanto sia commovente la sua voglia di tutelare i suoi ragazzi, anche a costo di pagare un prezzo salato.
Eppure, Carla è l’unica, o quasi, a fare quel che pensa sia giusto, e non quel che le regole impongono.
Lo fanno Carla, e Oskar, suo pupillo e suo rivale. Coraggioso e idealista quanto lei, destinato a una sorta di tragico trionfo, messo con dolorosa ironia in scena, in una splendida sequenza finale, da Çatak.
La sala professori trova nella sintesi tra determinazione un po’ cieca e ingenua di Oskar, e quella goffa e testarda di Carla un difficile equilibrio, e apre questioni sui processi educativi, le responsabilità degli insegnanti e quelle dei ragazzi, il ruolo che hanno idiosincrasie, pregiudizi e umori personali nella gestione della cosa comune.
Non fanno sconti a nessuno, Çatak e Duncker: non ai personaggi adulti del loro film, non ai ragazzi.
Figuriamoci se ne fanno a noi, condannati a una tensione morale e psicologica che rimane costante per tutta l’ora e mezza abbondante (e mai superflua) del film, e che viene resa ancora più efficace dalla precisione della macchina da presa, e dalle note della colonna sonora di Marvin Miller.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival