La pecora nera - recensione del film di Ascanio Celestini

27 settembre 2010
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Era difficile – di più, rischioso – un film come La pecora nera. Primariamente per una questione di mera forma. Perché per portare al cinema il libro omonimo di Ascanio Celestini, e lo spettacolo teatrale che ne era seguito, bisognava trovare una traduzione adeguatamente sostenibile dello stile della prosa e della recitazione dell’auto...

La pecora nera - recensione del film di Ascanio Celestini

La pecora nera - la recensione

Era difficile – di più, rischioso – un film come La pecora nera. Primariamente per una questione di mera forma. Perché per portare al cinema il libro omonimo di Ascanio Celestini, e lo spettacolo teatrale che ne era seguito, bisognava trovare una traduzione adeguatamente sostenibile dello stile della prosa e della recitazione dell’autore romano. Prosa e recitazione che si basano su un flusso di coscienza ininterrotto e anarchico, difficilmente sostenibile sul grande schermo.

Celestini ha avuto in questo senso due meriti. Il primo è stato quello di circondarsi e affidarsi a collaboratori che il cinema lo conoscono da più tempo di lui: dall’aiuto regista Valia Santella al direttore della fotografia Daniele Ciprì, passando per Ugo Chiti e Wilma Labate alla sceneggiatura. Il secondo è stato quello di accollarsi comunque in pieno rischi e responsabilità, non snaturando sé stesso ma cercando la mediazione con una lingua diversa da quella da lui solitamente utilizzata: e la forma monologo è qui frantumata e redistribuita tra voce off presente ma funzionale e battute messe in bocca ai vari personaggi, il tutto con un’attenzione formale e visiva che dimostra comprensione e rispetto per lo specifico del cinema. Il risultato è indubbiamente insolito e personale, ma, a suo modo, persino sperimentale e innovativo.

A questa messa in scena necessariamente non naturalistica, pianificata e fluida nel senso tradizionale del termine fanno da contraltare passioni tematiche forti e profondamente legate all’immediatezza viscerale dell’emotività: e dalla tensione che si crea tra questi due (apparenti) opposti, La pecora nera fa scaturire un’energia che Celestini, pur non evitando qualche bruciatura, canalizza per fondere insieme le due anime e farle camminare di pari passo lungo quel percorso di racconto e affabulazione che gli interessa, per far battere il cuore sincero del suo film. Un cuore che non è affatto, semplicemente, dedicato ad una mera operazione di denuncia delle istituzioni psichiatriche di ieri e di oggi, della condizione dei malati di mente, della barbarie e dell’insensibilità di certe terapie o di certo personale.

Attraverso la visione del mondo del suo protagonista, Nicola, le sue ossessioni (da quella della nascita nei “favolosi anni Sessanta” a quella per il momento del consumo, la spesa al supermercato, passando per quella – più sottile – per l’amore della sua infanzia), quelle parallele e divergenti (schizofreniche, appunto) dell’amico interpretato dal bravo Giorgio Tirabassi, Celestini mira e riesce a parlare di molto altro. Di una realtà sociale perversa e immutabile, del nostro paese, dei nostri (tanti) vizi e delle nostre (poche) virtù, delle illusioni alle quali, collettivamente o singolarmente, ci aggrappiamo per far fronte ad una realtà troppo spesso troppo aspra da poter essere esperita senza filtri. Perché anche la follia, come La pecora nera, ha due facce e due anime.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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