La luna su Torino - recensione del film diretto da Davide Ferrario
Il regista torna a raccontare la città sabauda
La crisi. Più che un fenomeno economico è diventato ormai uno stato d’animo, in cui si confondono cause ed effetti di vario genere, generazioni che non comunicano. La crisi il cinema italiano ha cercato di raccontarla quasi sempre in chiave drammatica, raccontando storie che fossero esemplari del contesto. Per Davide Ferrario, invece, il modo migliore era farlo raccontando prima uno spazio che un tempo. Una linea simbolica come quella che segna il 45° parallelo, che percorre la pianura padana, attraversando Torino proprio nel mezzo. Un parallelo che la colloca nella metà esatta fra il polo nord e l’equatore. Un parallelo da cui partire per evadere dalla propria vita.
Dalla vita di tre persone, età diverse: da poco più di venti ai quaranta, che vivono nella casa del più grande di loro, sulle colline. Una casa ereditata, che diventa un mausoleo del passato, ma anche una prigione che li immobilizza, statici quanto gli animali chiusi nello zoo in cui lavora il più giovane dei tre o quanto la donna del gruppo, che lavora in un’agenzia viaggi senza muoversi mai, vedendo anzi i suoi clienti che partono entusiasti e tornano senza felicità.
Se in Dopo mezzanotte Ferrario ha realizzato un omaggio a Torino, al suo luogo simbolo e attraverso questo al cinema, in questo figlioccio sbiadito la città sabauda sta stretta ai tre protagonisti, che cercano di alzare lo sguardo -neanche più la collina di Superga basta- di uscire dalla quotidianità. Per farlo devono trovare la forza per prendere il proprio destino in mano e partire da questo benedetto 45° parallelo, magari poi si fa tutto il giro e si torna al punto di partenza.
La luna su Torino contiene tanto, troppo: voci fuori campo insistite e supponenti, momenti di umorismo stonato, citazioni assortite da Giacomo Leopardi, una spruzzatina di “quanto era porco D’Annunzio”, proprio durante un amplesso. Sconclusionato come la crisi che vuole raccontare, il film di Ferrario è vittima di una sceneggiatura confusa e di personaggi (e attori) non convincenti, che oltretutto agiscono solo per cause esterne. La malinconica solitudine è centrata piuttosto in alcuni ruoli di contorno, come un controllore della tranvia per Superga o un anziano torinese di collina in cerca di pranzi a scrocco.
Il tentativo, ammirevole, di trovare una chiave meno realistica per raccontare questi anni, per riaprire un dialogo fra generazioni e fra sogni diventati apatici, fallisce, poi, proprio in quella messa in scena che tanto ci aveva convinto in altri film del regista come Dopo mezzanotte.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito