La forma della voce, la recensione dell'anime rivelazione di Naoko Yamada
Con il suo nuovo I colori dell'anima alle porte dei cinema italiani, riguardiamo il film anime che ha portato alla fama internazionale la regista Naoko Yamada: il potente La forma della voce, racconto di bullismo, disabilità e disagio adolescenziale. La nostra recensione.
Sul finire della scuola elementare (in Giappone corrispondente quasi alle nostre medie), Shoya Ishida è il bullo della classe: decide lui chi prendere in giro e quando infastidire il prossimo. All'arrivo di Shoko Nishimiya, ragazzina non udente, sente che l'attenzione si sta spostando su di lei... e non perdona. In un crescendo di vessazioni, costringe la madre di Shoko a spostarla in un'altra scuola, mentre lui diventa l'unico responsabile del bullismo, scaricato di fronte al preside anche dai compagni complici silenziosi. Anni dopo, al liceo, Shoya evita gli altri ed è segretamente depresso: medita il suicidio, ma nella lista di azioni da compiere prima di morire ci sono le scuse a Shoko. Che però non serba rancore.
Nonostante l'animatrice e storyboardista Naoko Yamada avesse già diretto un film dalla popolare serie K-On!, non è entrata nei radar degli appassionati non-specializzati in anime finché non ha firmato questo La forma della voce nel 2016. Si tratta dell'adattamento di un popolarissimo manga di tre anni prima a firma Yoshitoki Ōima, sceneggiato da Reiko Yoshida: tre sensibilità femminili quindi portano a compimento questo percorso d'espiazione al maschile, una narrazione che ha fatto meritati proseliti in una decina d'anni. C'è da sperare che, se più minorenni lo vedessero, ci sarebbe meno spazio per le forme estreme di bullismo, se possibile fattosi ancora più intenso e incontrollabile a causa dei social (non al centro di questa narrazione, specifichiamo). In un'epoca che sdogana il cattivismo, non risparmiando nemmeno l'inclusività verso la disabilità con la squallida ipocrita scusa del "parlar chiaro", La forma della voce ha persino guadagnato valore.
E non si può dire che questo sia un film buonista. La prima ventina di minuti, a seconda della vostra storia personale, potrebbe essere difficilmente sostenibile: non è mai edulcorato il contrasto tra Shoko, che offre a tutti un quaderno per scriverle i pensieri e comunicare con lei, e la spontanea aggressività dei compagni... ivi compresa una micidiale estrazione violenta degli apparecchi acustici, con tanto di sanguinamento. Difficile poi pensare a un film animato, realizzato fuori dal Giappone, che parli così esplicitamente di tentazioni suicide in minorenni. Poggiando su questa base molto concreta e realistica nel prologo, La forma della voce si concede di abbracciare gli aspetti più melodrammatici con i giovani Shoya e Shoko in versione liceali: forse è un certo obbligo "di genere" a stiracchiare la narrazione nella seconda metà, rischiando la durata totale sulle due ore e dieci, con qualche ridondanza troppo urlata nel finale. È un peccato, ma le intenzioni sono troppo indovinate per giustificare una demolizione di tutto il lavoro. Ricordiamoci di guardare la Luna e non il dito.
C'è un attento e riuscito impianto psicologico, nell'interazione della maggioranza dei personaggi. Nel suo percorso di redenzione, Shoya mette a nudo l'ipocrisia di chi è stato apparentemente meno disgustoso di lui, ma ne ha avallato le azioni col silenzio-assenso, quando proprio non si è accodato a lui con la logica del branco. Shoya si fa carico anche del senso di colpa di chi non lo vuole: interessante l'ex-compagna Naoka, che era segretamente innamorata di lui, e che anche dopo anni attribuisce a Shoko la colpa di aver spezzato l'equilibrio della classe col suo essere "diversa": un'indiretta causa del discredito del bullo. Cosa peggiore, la stessa Shoko finisce per colpevolizzare sé stessa di questi squilibri causati dalla sua disabilità: è quella però la porta che si apre per Shoya, per una vera redenzione. Non dovrà semplicemente scusarsi e tenerle compagnia, ma dovrà dimostrarle concretamente che si sbaglia, e che gli esseri umani costruiscono barriere solo per debolezza.
E Shoya vive l'infernale contrappasso di una barriera letterale, proprio visiva: dopo il trauma, non guarda più in viso nessuno, tanto che vediamo simboliche X sui volti della maggior parte delle persone che lo circondano (tocco di classe: a volte compaiono anche sulle persone che pensava di conoscere). Non a caso il percorso narrativo non è in realtà improntato su un inevitabile idillio romantico tra Shoya e Shoko, quanto sul raggiungimento della serenità e della fiducia nel mondo da parte di entrambi, premessa necessaria di questo amore eventuale. È la scena finale, che non vi sveliamo di certo, a confermare quest'intenzione. A qualcuno che si sentisse privato della passione, suggeriamo di non sottovalutare lo scontro fisico tra Shoya e Shoko da ragazzini, dove la regista non nasconde un'evidente confusa tensione sessuale. Un ulteriore modo che usa il film per ricordarci che, con la felicità a portata di mano, noi esseri umani siamo bravissimi a complicarci la vita.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"