La famiglia Bélier - la recensione della commedia francese

25 marzo 2015
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Grande successo in patria, arriva una commedia fuori dai canoni, con al centro una famiglia di sordomuti.

La famiglia Bélier - la recensione della commedia francese

Per citare un vecchio film che fece vincere alla sua interprete sordomuta, Marlee Matlin, l'Oscar come miglior attrice protagonista, chi ha un handicap grave come l'impossibilità di sentire e di parlare, è davvero figlio di un dio minore? A giudicare dal carattere e dalla forza di volontà di alcuni di loro diremmo di no, ma sta di fatto che tra tutte le menomazioni fisiche questa è una delle più terribili. Perché crea, di fatto, una netta separazione tra il mondo del silenzio, dove alcuni sono costretti a vivere, e quello dei suoni e delle parole, dove abita la maggioranza. Il cinema di finzione ha spesso fatto dei sordomuti - quasi sempre incarnati da personaggi femminili - figure tragiche ma combattive, decise a dimostrare la propria capacità di vivere una vita normale nonostante tutto. Anche i Bélier - protagonisti della commedia di Eric Lartigau che l'anno scorso ha sbancato i botteghini francesi – in apparenza sono così, tanto che il padre, proprietario di una piccola azienda agricola in Normandia, decide perfino di presentare la propria candidatura come sindaco in opposizione a quella dell'idiota approfittatore di turno. Hanno inoltre una vita sessuale iperattiva, si vogliono un mondo di bene e anche il figlio minore sembra vivere la sua condizione con serenità. Ma in realtà si appoggiano tutti pesantemente sulle spalle di una ragazzina che non a caso non ha ancora avuto il ciclo, perché troppo impegnata a occuparsi dei suoi per ritagliarsi degli scampoli di vita da normale sedicenne.

Non è che i Bélier siano egoisti e insensibili, ma ai loro occhi quella non normale è Paula, che adorano e hanno accettato nonostante il dolore iniziale nello scoprire che era in grado di sentire, reazione a quanto pare diffusa fra genitori audiolesi con figli udenti. Danno dunque per scontato che tra i doveri quotidiani di una brava figlia ci sia anche quello di far loro da interprete in situazioni imbarazzanti come una visita dal ginecologo per problemi venerei o durante un'intervista televisiva. E nella vita di tutti i giorni è sempre Paula che parla con clienti, banche e fornitori, che aiuta a vendere i loro prodotti al mercato e in compenso, anche se vive in un piccolo paese dove tutti sembrano conoscersi, tiene nascosta la situazione dei suoi famigliari. Non ne fa parola finché può col ragazzo di cui si innamora e col maestro di canto della scuola, che scopre il suo talento naturale e la spinge a partecipare a un concorso per giovani voci a Parigi, innescando in lei un conflitto lacerante tra il desiderio di spiccare il volo con le proprie ali e la paura di ferire i propri cari.

Si sorride, si ride e ci si commuove un po' disordinatamente vedendo il film: le risate nascono essenzialmente dal contrasto tra la naturalezza di persone che non hanno le parole a far loro da schermo e il mondo ipocrita di chi parla di continuo e spesso a sproposito. E' divertente l'inizio in cui anche una tranquilla colazione in famiglia diventa una sinfonia di fastidiosi rumori per chi, invece, ci sente. La sceneggiatura che Lartigau mette in scena con molta cura sembra a volte indecisa su quale sia il tema che le sta veramente a cuore.  Assolti gli obblighi della commedia di creare un certo numero di situazioni che facciano ridere lo spettatore, l'attenzione viene spostata sulla voglia di crescere di Paula, con la formazione del suo dono naturale attraverso l'esecuzione dei brani di un mito della canzone popolare francese come Michel Sardou, che il maestro di canto del coro costringe i suoi giovani allievi a imparare (un po' come se facessimo cantare ai nostri adolescenti canzoni di Albano e Toto Cutugno, coautore peraltro con Sardou di En chantant). I classici dello chansonnier, che celebrano l'amore senza limiti e la libertà, finiscono per parlare al cuore di Paula.

Ed è proprio alla fine – che non vi sveliamo – che il film mostra il suo vero cuore, mostrandoci quanto sia sconcertante per dei genitori non udenti avere una figlia che non solo parla ma vuole lasciarli per coltivare l'arte del canto, di cui loro non hanno percezione e dunque comprensione. In due scene importanti e toccanti vediamo il catartico superamento di barriere in apparenza insormontabili: tutto è possibile quando le parti in causa si vengono incontro con amore, comunicando davvero e mettendo in contatto i rispettivi mondi.

Non sappiamo se nella sceneggiatura originale il canto avesse già tanta importanza o se l'abbia acquistato con la scrittura della sedicenne Louane Emera, rivelazione del The Voice francese, ma è la sua prova quella che ci ha maggiormente colpito: non solo ha appreso la lingua dei segni ma alla sua prima interpretazione recita e canta con assoluta naturalezza, con quel misto di goffaggine e improvvisa bellezza che solo negli adolescenti può coesistere. Molto spontaneo anche Luca Gelberg, che è veramente sordo e interpreta il figlio minore mentre i rodati professionisti Karin Viard e François Damiens, mamma civettuola e un po' svampita e padre burbero ma di gran cuore, creano due bei personaggi senza l'ausilio della voce, compensandone l'assenza con una gestualità che a un profano può apparire forse un po' esagerata.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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