La danza della realtà - la recensione del film di Alejandro Jodorowsky

28 ottobre 2014
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25 anni dopo Santa Sangre torna nelle sale un film del poliedrico artista cileno.

La danza della realtà - la recensione del film di Alejandro Jodorowsky

Alejandro Jodorowsky è un artista completo e totale: poeta, sceneggiatore di memorabili saghe a fumetti col geniale e compianto Moebius, cineasta surrealista e underground, grande psicomago, lettore e divulgatore di Tarocchi, affabulatore appassionato e instancabile, autore del film più visionario e straordinario mai concepito da mente umana e mai, purtroppo, arrivato sullo schermo, l'ambiziosa trasposizione del romanzo di Frank Herbert a cui è stato dedicato lo splendido documentario Jodorowsky's Dune. A 84 anni, 23 anni dopo Santa Sangre (uscito 25 anni fa), l'artista cileno è riuscito, investendo parte dei suoi soldi e con l'aiuto del produttore dello sfortunato Dune, Michel Seydoux, a tornare dietro la macchina da presa per realizzare un nuovo film, fusione di due capitoli dei suoi libri “autobiografici”, “La danza della realtà”, appunto, e “Il tesoro dell'ombra”.

Non è un Amarcord velato dai toni dolci della nostalgia questo, ma è un film ambizioso che vede lo Jodorowsky di oggi accompagnare il se stesso bambino in un momento di grande infelicità, con cui si è ormai riconciliato. La magia dell'arte è anche quella di trasfigurare la realtà e se c'è uno sguardo che è sempre stato rivolto all'anima delle cose è quello di Alejandro Jodorowsky, un intellettuale unico nel suo genere, animista e spirituale, sempre ironico e in costante ebollizione creativa.

La danza della realtà è il film in cui confluiscono tutte le esperienze  dell'autore, dal misticismo ai Tarocchi, ma è anche una presa di coscienza personale del fatto che proprio tutto, comprese le inutili crudeltà e le prepotenze, si può perdonare ai propri genitori, una volta divenuti adulti e capaci di capire quali fossero i loro limiti umani.

Jaime, il padre supermacho e stoico di Alejandro, a cui Jodorowsky concede nel film un ravvedimento e una espiazione che nella realtà non ha avuto, con gli occhi della maturità viene, se non giustificato, “spiegato” nelle sue azioni, mentre la madre da lui schiavizzata, che sognava di fare la cantante lirica, per tutto il film canta da soprano i suoi tormenti e le sue gioie. Il padre, è anche una metafora del Cile, ne incarna le anime e le sofferenze e attraverso la sua vita e la sua odissea vengono rappresentati i drammi che colpiscono un popolo in perenne miseria e schiacciato da feroci dittature.

Fin dalle immagini iniziali si comprende però la felicità del regista nel tornare al paese in cui, unico immigrato, per di più ebreo e bianco, era disprezzato ed emarginato dai coetanei che lo chiamavano Pinocchio per i suoi (raffinati) diversi lineamenti. Si vede la sua gioia nel trovarlo quasi identico dopo decenni e l'entusiasmo con cui lo ripopola della fauna umana della sua infanzia: i mutilati delle miniere, Teosofo (vero e proprio Matto dei Tarocchi), il gelataio, il nano che pubblicizza il negozio di biancheria del padre. Non ci sono ombre, in questa visione, la fotografia è nitida, luminosa, coloratissima, perché questo è lo sguardo di un bambino coccolato dalla madre e bistrattato dal padre, un bambino infelice ma curioso e avventuroso, che accetta il mondo come lo vede perché non può fare altro ma che da grande, con la sua arte, contribuirà a cambiarlo.

Se l'essere umano adulto viene creato dalle esperienze dell'infanzia, anche il dolore ha una sua funzione. Jodorowsky lo ha accettato e guarda oltre. Non a caso lui nel film è il presente che motiva il bambino del passato e l'ultimo sguardo è rivolto avanti, verso il futuro. Quel futuro che i Tarocchi non possono prevedere ma sanno orientare, perché è comprendendo da dove veniamo che possiamo cambiare il nostro presente e dunque quel che seguirà.

Il padre è interpretato con straordinaria bravura, in una performance molto fisica che passa dalla violenza fatta a quella subita, fino ad arrivare alla commovente redenzione, dal figlio di Jodorowsky, Brontis, attore bambino a 7 anni in El Topo, previsto interprete di Dune a 12 e a 27 protagonista di Santa Sangre. Nel piccolo ruolo dell'anarchico si vede anche il figlio più giovane, Adan, compositore delle splendide musiche.

E in questa danza della realtà, arcana, atroce, divertente e illuminante, sensorialmente coinvolgente, ci ritroviamo nostro malgrado a danzare anche noi. Non importa capire tutti i simboli o le visioni che questo grande sciamano evoca, quanto ricordare che il cinema non è soltanto il bombardamento di blockbuster svuotapensieri a cui siamo ormai tutti abituati.

Come accadeva spesso negli anni Settanta e sempre più di rado adesso, c'è – ci dovrebbe essere sempre - anche un cinema che parla all'anima, allarga gli orizzonti e resta a lungo negli occhi e nel cuore di chi lo vede.

 



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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