La città proibita, la recensione: i noodles all'amatriciana di Mainetti sono un grande sì

06 marzo 2025
4 di 5

Azione, kung fu, sentimento, melodramma, commedia: tutto mescolato assieme, gestito alla perfezione, girato benissimo. Questa volta Mainetti fa centro. La recensione di La Città Proibita di Gabriele Mainetti.

La città proibita, la recensione: i noodles all'amatriciana di Mainetti sono un grande sì

Lo ammetto: a me Gabriele Mainetti non è che avesse convinto molto, finora. Per carità, gli ho sempre riconosciuto la voglia di fare in Italia un cinema che non fa praticamente nessun altro (e che manca tantissimo), così come la capacità di girare con una spettacolarità e una gestione tecnica della macchina cinema che da noi non ha praticamente nessun altro (e che manca tantissimo). Il che potrebbe bastare, mi rendo conto, a farsi piacere dei film, film come Lo chiamavano Jeeg Robot o Freaks Out, che però per un motivo o l’altro non solo non mi convincevano, ma avevano qualcosa che quasi mi irritava, per quello che mi pareva lo sciupio indiscriminato di tanta visione e tanto talento.
Ero timoroso, quindi, quando ho approcciato il suo nuovo La città proibita, ma molto soddisfatto e felice quando, alla fine del film, mi sono reso conto che tutto funzionava e niente infastidiva.

La partenza è davvero folgorante: un prologo funzionale, e poi una bellissima e lunghissima sequenza che ci introduce il personaggio di Mei, inarrestabile nella ricerca di una sorella scomparsa e letale nell’uso del kung fu, e che ci mostra subito, a mille all’ora, quanto Mainetti sia capace di girare con competenza e soprattutto creatività (in una cucina si usa di tutto, dai wok alle grattugie passando per le friggitrici) le scene d’azione e di arti marziali.
Si vede, da queste scene, come Mainetti conosca bene, molto bene, i materiali originali, e si vede come sa applicare quella competenza a un contesto diverso quando, una volta che Mei esce dai luoghi dello scontro (un sotterraneo, un bordello, un ristorante, tutti collegati tra loro senza soluzione di continuità) e esce per strada, e la strada è una di quelle del rione Esquilino, rivelando che quel mondo nascosto che ci sembrava al 100% Cina è in realtà 100% Roma.

Da quel momento in avanti Mainetti mescola tutto: la Cina e Roma, il kung fu e i sentimenti, la commedia alla Steno e una storia di brutale vendetta, la violenza marziale e l’indolenza capitolina, il melodramma familiare e gli inghippi della malavita, i noodles con l’amatriciana.
In questa mescolanza, perfettamente gestita, c’è quella caratteristica tipica del cinema orientale di mettere assieme i generi più disparati, e quindi ancora una volta Mainetti omaggia il cinema da cui è partito (e lo fa anche nella struttura narrativa del suo film); ma c’è anche qualcosa di più, e di più locale se vogliamo, che fotografa perfettamente la grande, splendida confusione di un presente dove culture e tradizioni si intrecciano e accavallano e convivono, di cui appunto l’Esquilino romano, da anni, è una perfetto e concentrato esempio (lo raccontava già anni fa Tommaso Pincio nel suo ottimo romanzo “Cinacittà”).

“La città proibita” è il nome del ristorante cinese gestito dal malavitoso Wang che Mei sa essere responsabile della sparizione di sua sorella; a pochi passi, sotto i portici di piazza Vittorio, ce n’è un’altro di ristorante, “Da Alfredo”, che è invece nello stile, nel cibo, nelle stoviglie, negli arredi e nei camerieri la quintessenza della trattoria romana de ‘na vorta, come quasi non ce ne sono più. È lì che Mei incontrerà Marcello, il figlio di Alfredo, l’uomo con cui sua sorella è sparita. Uniti dal destino e dalla relazione tra i loro familiari, Mei e Marcello dovranno cercare di capire che fine hanno fatto quei due, mentre tutto attorno l’Esquilino è un turbinio di bancarelle e vitalità, di etnie che convivono e lavorano, mentre i vecchi razzisti come Annibale, criminale di mezza tacca, uno di quelli di una malavita romana de ‘na vorta pure lei che però è legato alla famiglia di Marcello da sempre, sfrutta gli immigrati africani e se la prende coi cinesi, che considera rivali.

Tutto questo Mainetti lo racconta perché, certo, nel suo film l'unione tra le culture è sintetizzata in Mei e Marcello che finiscono con l’innamorarsi e girare per Roma di notte in Vespa come in Vacanze romane, ma anche perché - senza voler strombazzare proclami politici, ma semplicemente per un movimento naturale e spontaneo di umanità - sa che tutto questo mescolare e ibridare e far convivere è bellissimo, nel film come nella realtà, e quelli come Annibale, che sputano sentenze e rancori, sono dinosauri destinati (speriamo) a estinguersi, e le tante persone che sono arrivate da paesi lontani per vivere qui destinati (speriamo) a starci e starsi accanto senza più pensare a troppe differenze, ma facendo di quelle stesse differenze la ricchezza del proprio vivere.
Azione e sentimento vanno a braccetto, in questo film, per raccontare una storia, un quartiere, una città e un mondo dove vanno lasciate alle spalle le pesanti eredità e le arrugginite tradizioni del passato diventate prigioni per rilanciare sé stessi (e la propria storia) verso il futuro.

Non era facile, tenere assieme tutto questo. Anche perché, ogni volta che La città proibita cambia stile e registro, Mainetti va fino in fondo, senza riserve: nell’azione, che è spettacolare e violenta; nel melodramma, dove le passioni sono cariche; nel romanticismo, che è semplice ma mai banale, e sempre sincero; nella commedia, dove le battute, spesso in romanesco, sono brucianti e azzeccate. Al tempo stesso, dentro a ogni situazione c’è sempre anche il filo che conduce alla successiva, e al nuovo tono (che poi è spesso anche un diverso tono cromatico, fotografico, stilistico) che questa avrà.
Quello che manca, per fortuna, rispetto ai film precedenti di Mainetti, è l’esagerazione, il grottesco, il sopra le righe fumettistico e compiaciuto, lo stare sempre quel tanto di troppo, per sbruffoneria, dentro una situazione o una scena: il che è probabilmente conseguenza del cambio di sceneggiatori, visto che qui Mainetti non ha più scritto col Nicola Guaglianone dei suoi primi due lavori, ma con Stefano Bises e Davide Serino.

Ma anche al netto di tutto questo, La città proibita è un film davvero sorprendente per dimensione produttiva, capacità realizzativa, per il divertimento e l’emozione e le inquadrature che è capace di mettere sullo schermo, le risate che suscita, la capacità di mettere in bocca ai personaggi (cui Mainetti vuole sinceramente bene e che hanno una loro umanità, anche nel caso dei “cattivi”) battute che sono già tormentone non appena vengono pronunciate, per la qualità dell’azione marziale che mette in scena quando la protagonista Mei picchia qualcuno come un fabbro. Praticamente perfette le scelte di casting, non tanto e non solo i soliti nomi noti di contorno (Ferilli e Giallini), ma per i due giovani e poco noti protagonisti, Enrico Borello e Yaxi Liu.
Non avessi paura di andare a toccare quello che per me è un film di culto nel vero senso della parola, per cui ho una venerazione quasi religiosa, direi che l’omaggio di Mainetti al genere sta sulla scia di quello fatto da John Carpenter tanti anni fa in Grosso guaio a Chinatown.
Ops, temo di averlo appena fatto.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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