La Casa degli Sguardi: la recensione del film di Luca Zingaretti con Gianmarco Franchini
Luca Zingaretti dirige il suo primo film di finzione adattando La Casa degli Sguardi di Daniele Mencarelli e parlando dell'importanza del lavoro e dell'attaccamento alla vita. La recensione di Carola Proto.
"Non sono mai stato tanto attaccato alla vita" - scriveva Giuseppe Ungaretti nella poesia "Veglia", rievocando la guerra e una nottata passata accanto a un soldato ucciso. Forse questo splendido verso c'entra poco con La Casa degli Sguardi, ma in un caso come nell'altro si parla della capacità dell’uomo di resistere e di esistere, e anche della voglia di continuare a esistere, aggrappandosi con le unghie e con i denti a una speranza o acchiappando la coda di un sogno.
Il sogno... tutti ne hanno uno, persino il protagonista del primo film di finzione di Luca Zingaretti. Marco detto Marcolino vorrebbe diventare un poeta. In realtà già lo è, e infatti ha un editore, ma la sua fragilità, insieme al lutto mai elaborato per la morte di sua madre, lo porta a bere fino a stordirsi e a diventare irascibile, con grande costernazione di suo padre che fa il tranviere in una Roma lontana dal centro e guida quel 19 che è diventato il protagonista muto di un libro di Edoardo Albinati. È stanco di raccontare ai medici sempre la stessa filastrocca il papà di Marco, e così, aiutato da un amico, gli trova un posto in una cooperativa di pulizia del Bambin Gesù, ospedale pediatrico nel quale il dolore è amplificato perché non c’è nulla di più tragico della morte di un bimbo. Eppure il dolore a volte "serve", ma Marcolino questo non lo sa, e non sa che non può esserci rinascita senza dolore e nemmeno gioia, e allora cerca di scomparire nell'oblio e di raggiungere "la dimenticanza", magari l'atarassia. Il ragazzo, però, sembra aver scordato che ogni uomo combatte una battaglia e soprattutto che nessuno si salva da solo. In tal senso, più che un film sulla resilienza, La Casa degli Sguardi parla dell'importanza di esserci per gli altri e di rispettare e accogliere le loro debolezze. Per farlo non c’è bisogno di tante parole: basta una piccola attenzione, un gesto. Per questa ragione Zingaretti, che interpreta il papà di Marco, non si perde in dialoghi eccessivamente lunghi o compiaciuti, ma preferisce fotografare espressioni e sguardi, anche perché si può comunicare e diventare amici anche pulendo una vetrata insieme in religioso silenzio, per poi condividere aspirazioni e desideri.
Siamo lontanissimi, ne La Casa degli Sguardi, dalle commedie o dai drammi borghesi. A questi, Luca Zingaretti oppone un cinema "popolare", laddove popolare non vuol dire facile, anche perché non è di malattia mentale che si parla ma di qualcosa di ben più complesso che potremmo chiamare, d’accordo con Eugenio Montale, "male di vivere". Il film dell'ex Commissario Montalbano, inoltre, ci mostra un'umanità che non ha il tempo di annoiarsi, perché dopo un turno di 8 ore vuole soltanto un po' di riposo. Eppure quelle 8 ore sono importanti, sembra volerci dire Zingaretti, e non a caso il film è anche una riflessione sul lavoro, che salva e che nobilita. Il primo articolo della nostra Costituzione ci insegna che "L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro", il che significa che il lavoro è un diritto inalienabile e tale deve restare nonostante le intelligenze artificiali, lo smart working e i "padroni" che licenziano e riducono gli stipendi. Per Marcolino, ma anche per ognuno di noi, il lavoro significa rapporti umani e solidarietà, soddisfazione e fuga dai demoni interiori, orgoglio e crescita, senso di appartenenza e dignità, soprattutto dignità. Non a caso Marco, dopo una giornata di durissimo lavoro, dice ai colleghi: “È la cosa più bella che mi è capitata da un sacco di tempo”.
La Casa degli Sguardi è anche un film sul rapporto padre/figlio e sulla tendenza dei genitori a non aver fiducia nei figli e a sottovalutarli. Infine Zingaretti, che da buon romanista trova il modo di dare una stoccata alla Lazio, celebra la poesia (e quindi l'arte) e la bellezza, che hanno un grande potere salvifico. In una scena del film qualcuno cita i poeti maledetti, che sappiamo inclini al consumo smodato di droga e di alcool perché non in grado di sopportare “le frombole e i dardi dell'oltraggiosa fortuna". Il poeta Marcolino, al contrario, ha la possibilità di trasformare il dolore in arte. Lo farà? Non saremo certo noi a dirvelo. Possiamo invece rivelarvi che Gianmarco Franchini è di una bravura incredibile e quasi spiazzante, e che sono i suoi occhi spalancati l'immagine più potente del film, di cui ricorderemo con tenerezza anche il borsello e la camicia a maniche corte del personaggio di Luca Zingaretti. Dietro c'è tutto un mondo, ed è un mondo in cui semplicità non fa rima con stupidità e la felicità è una sera in terrazza a fumare il sigaro e a sperare in un domani migliore.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali