L'ospite inatteso - recensione del film diretto da Tom McCarthy
L'attore Tom McCarthy torna dietro la macchina da presa dopo il fortunato esordio di Station Agent, e ripropone intatte la sensibilità e la delicatezza mostrate in quel film. Meritatissime le tre nomination agli Independent Spirit Awards ottenute dal film.
L'ospite inatteso - la recensione
Oops, he did it again. Dopo Station Agent Tom McCarthy torna alla regia e ci rifà. Ripropone quasi con sfacciataggine, dati i tempi, il suo cinema minimale, nel quale il lento fluire di una quotidianità fatta di piccoli gesti apre squarci abissali nell’animo dei protagonisti e di noi che guardiamo.
Il Walter interpretato da un superlativo Richard Jenkins è un uomo abituato a vivere la sua vita da spettatore, e che improvvisamente si ritrova ad esser(n)e protagonista. È un visitatore, come indica il titolo originale del film: un visitatore che lascia scorrere il mondo davanti a sé e che un giorno decide di fermarsi e toccare con mano quel che non aveva mai avuto il coraggio di affermate. Un uomo ferito dal passato che impara nuovamente ad alzare la testa, ad agire, a sorridere.
Se poi la vicenda intima e personale sua e dei suoi nuovi amici (immigrati clandestini ma “integrati” come il percussionista siriano Tariq, la sua fidanzata senegalese Zainab, sua madre Mouna) arriva a toccare temi collettivi e sociali sugli Stati Uniti d’oggi, lo fa in maniera tutt’altro che banale e mai pedante. Perché il sorriso incerto di Walter è quello di un’America che si è timidamente ripresa dal trauma dell’11/9 ma che non riconosce più quello che gli si para davanti agli occhi, che non comprende come la paura abbia potuto portare a rinnegare quei principi cui è stata educata e che sono incarnati da simboli (ricorrenti nel film) come la bandiera o la Statua della Libertà.
McCarthy gira con grande efficacia grazie al pudore e alla discrezione con i quali tratteggia i suoi protagonisti e le loro vicende, rimanendo solo in apparenza sulla superficie di cose e fatti: dalla timidezza figlia dell’umiliazione di Zainab all’amore che nasce e cresce tra Walter e Mouna e che non si consumerà mai, passando per il timido entusiasmo del protagonista che si lascia coinvolgere dalla musica dei djembe e alla sua amicizia con Tariq. Lentamente, a piccoli passi, precipitiamo nel mondo e nei sentimenti del film, alternando commozione e sorrisi. Magari a volte amari, ma sempre sincerissimi.
E quando Zainab, sul traghetto per Staten Islan, indica entusiasta a Mouna lo skyline di Manhattan e dice con leggerezza “Lì c’erano le Torri Gemelle,” il cuore si stringe e ci si accorge che c’è più politica in quella frase buttata lì che in ore e ore di retorica spesso propinataci fino ad ora.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival