L'attesa: recensione del film di Piero Messina con Juliette Binoche
Il film è presentato in concorso al Festival di Venezia 2015
Ci tiene a presentarsi bene, Piero Messina. Sa che la prima impressione è spesso quella che conta, e allora ecco che apre il suo film d’esordio, L’attesa, con inquadrature e scene e musiche che sono un chiaro biglietto da visita: “Piero Messina, regista, già assistente di Paolo Sorrentino”.
La cosa ci va benissimo, intendiamoci: è bello vedere un esordiente che sa usare la macchina da presa in quel modo, e che sa come utilizzare bene le musiche; anche perché, man mano che il film procede, Messina dimostra anche di possedere una cifra sua, non solo o necessariamente di derivazione sorrentiniana, centrando in alcune scene momenti di cinema elegante e di forte impatto.
Certo, ci sono discontinuità e cadute di tono, ma in un film solenne come il suo, dove la carica nervosa della giovinezza di Lou de Laâge e del rapporto stretto e nebuloso con Juliette Binoche faticano a rompere la pesantezza esistenziale del lutto e del dolore, nel quale la vita viene bramata con disperazione silenziosa e quasi perversa, si può capire come Messina consideri lo stile come un antidoto al dolore. E perfino come a volte la gravità del tutto schiacci anche quello, portando a piccoli momenti di ordinaria banalità.
Dove allora non è questione di stile, non rimane altro che considerare la sostanza. E per L’attesa e Piero Messina le cose si fanno un po’ più complicate.
Il problema non è tanto la scarsa verosimiglianza della situazione, il fatto che la giovane Jeanne si beva senza dubbi le balle che la “suocera” Anna le rifila, o che (ammettiamolo) nessuna delle due donne sia capace di generare empatia nello spettatore, antipatiche come sono. Perché se togli quello, cade tutto, cade una costruzione narrativa che in quelle due donne e nel loro rapporto ha le sue fondamenta. Volendo, anche perché è legittimo pensare che quegli atteggiamenti siano pensati e voluti, messe in scena necessarie a tirare avanti, autoinganni figli della voglia di sopravvivere.
Dove però L’attesa sbanda in maniera piuttosto clamorosa è nella ridondante ovvietà del suo contenuto metaforico (dalla Pasqua alle carrube, passando per altro ancora), nella ostentazione grave e, fugacemente, greve di un dolore tanto più esibito quanto più soffocato, nella sua incapacità di lib(e)rarsi verso l’alto, alla ricerca di un’ariosità vitale, leggera come l’ossigeno e cinematograficamente premiante.
Messina invece sceglie sempre la strada del soffocamento, della castrazione, del silenzio pesante, aggrappandosi fino all’ultimo alle immagini e alla sua capacità di utilizzarle, tanto da voler per forza, con assoluta testardaggine, arrivare a dar corpo al fantasma che ha aleggiato su tutto il film fin dal suo primo minuto.
Ironia della sorte, a risolvere il rapporto tra Jeanne e Anna, e a esaurire l’attesa del film, non saranno immagini ma parole. Parole che racconteranno quel che Messina non mostra, e che verranno poi risucchiate dal silenzio di due corpi che si abbraccerranno e riveleranno per la prima e ultima volta, prima di separarsi definitivamente per una nuova attesa che non verrà mai soddisfatta.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival