Jack Reacher - la prova decisiva: la nostra recensione del film con Tom Cruise
Un nuovo personaggio e forse un nuovo franchise per il cinema d'azione contemporaneo.
L’acume deduttivo di Sherlock Holmes. Le capacità balistiche e di combattimento a mani nude di Jason Bourne. L’atteggiamento da Cavaliere Solitario. L’idea di giustizia estrema e moralmente ambigua del Batman più cupo. Un pizzico della follia di Martin Riggs e della lingua lunga di John McClane.
Da questa somma di elementi nasce Jack Reacher, personaggio che i suoi autori e il suo interprete mirano esplicitamente a far diventare un nuovo eroe del grande schermo, una sorta di übermensch del cinema d’azione capace di reggere da solo il peso di uno nuovo, ennesimo franchise e del rilancio della carriera di Tom Cruise.
Christopher McQuarrie - che, dopo la collaborazione in Operazione Valchiria Cruise ha voluto per scrivere e dirigere il film che da questo Frankenstein degli action-hero prende il titolo - fa quel che può per dare un colpo al cerchio (girare uno spottone sulle capacità e sul carisma dell’attore) ed uno alla botte (realizzare un film efficace e appassionante), ma non riesce del tutto né nell’uno né nell’altro.
La natura composita del Jack Reacher personaggio rende infatti anche il Jack Reacher film una sorta di patchwork, piuttosto scomposto, che tenta di mescolare senza troppa agilità toni tesi e umorismo sardonico, inseguimenti spettacolari e macchinose congetture. E in questo quadro, non drammatico ma comunque totalmente dipendente dalla figura del protagonista, pesa come un macigno il fatto che, contrariamente a quanto si auspicava, quello di Cruise nei panni di Reacher è uno dei più clamorosi casi di miscasting nella storia recente di Hollywood.
L’attore americano non risulta infatti credibile né nella sua versione più spietata né in quella investigativa né in quella sarcastica: rigido, troppo lindo e troppo poco tormentato, di certo poco avvezzo a veicolare l’umorismo, seppur tagliente e sardonico. Risulta efficace solo in qualche scena ipercinetica di scontro fisico (forse perché più vicine a quelle delle grandi saghe d’azione di un paio di decenni fa che a modelli più contemporanei), e in qualche sporadico scambio con la sua controparte femminile, una Rosamund Pike capace di adeguare l’accento british e gli occhioni sgranati e seduttivi, e di mettersi con onestà al servizio di un film che la vede relegata a spalla decisamente poco propulsiva dell’Eroe.
Tra le pieghe di una trama che funziona - pur non brillando per originalità e incapace di dire granché sul mondo che ci circonda nel suo ossessivo tentativo di attualizzare gli anni Ottanta - Jack Reacher trova sostegno e un un briciolo di carattere grazie a tre “grandi vecchi” che appaiono in ruoli comunque di contorno. L’ambiguo procuratore distrettuale di Richard Jenkins, il vecchio tiratore Robert Duvall e, su tutti, il villain spietato e quasi de umanizzato di Werner Herzog, che con enorme autoironia dipinge una sorta di estrema caricatura del suo personaggio pubblico avventuroso, irrefrenabile e larger-than-life.