J. Edgar - la recensione del film di Clint Eastwood

27 dicembre 2011
3.5 di 5
4

Che abbia suscitato tante perplessità, si può capire. Ma quello di Clint Eastwood con Leonardo DiCaprio è un film che, a dispetto, o proprio in virtù, dei suoi difetti riesce a trasmettere un'umanità non comune.


Che J. Edgar abbia suscitato tante perplessità, si può capire.
Vuoi per l’orrido trucco messo in faccia a Leonardo DiCaprio.
Vuoi perché il primato del privato sulla politica, in questo caso, potrebbe avere il retrogusto del Clint più reazionario.
Vuoi perché il film non ha sempre la mano leggerissima e procede un po’ a singulti, ingolfandosi per poi riprendersi.
Son difetti concreti, oggettivi, che non si devono negare.
Ma quello di Eastwood è un film che, a dispetto (o proprio in virtù) di questi suoi difetti, della goffaggine che a tratti esprime - e che tanto assomiglia a quella del suo ferreo, implacabile e storicamente nefasto protagonista - riesce a trasmettere un’umanità non comune.

Accusare J.Edgar di mettere in scena un determinismo facile e riduzionista (quello per cui sono la castrazione che deriva dall’ingombrante e opprimente figura materna e la conseguente repressione della propria omosessualità a causare l’ossessione di controllo e l’ansia di potere) significa negare in maniera un po’ miope e sospetta la potenza di certe questioni interiori. Che la complessità dell’animo umano si costruisce sempre su fondamenta tanto più solide quanto più elementari.

Eppure Eastwood (e il suo sceneggiatore Dustin Lance Black) lo dichiarano chiaramente attraverso le loro scelte: il loro Hoover è quello (e solo quello) perché non ci sono nella sua vita altri elementi in grado di scardinare la sua basilare costruzione mentale. Un uomo che non ha altro perché solo e volontariamente segregato.
Non a caso, le uniche scene in cui al personaggio interpretato da Di Caprio è concesso un esterno sono quasi unicamente quelle funzionali alla rappresentazione (mediatica) del suo personaggio pubblico: altrimenti Hoover è sempre sepolto nell’ufficio che è e diverrà la sua tomba, un mausoleo in vita dove raccogliere la sua sapienza negli archivi e trasmettere la sua storia agli agenti chiamati a fargli da scribi. Ossessionato dal tracciamento del privato degli altri per compensare l’assenza del suo.

Hoover come l’ultimo dei faraoni, ma drammaticamente e paradossalmente impotente. L’uomo che forse più di tutti ha influenzato la politica statunitense del Ventesimo secolo è ritratto come un personaggio ridotto a guardare con malinconia la vita da una finestra, nell’illusione di poterla veramente controllare e, ancor di più, di vedere un giorno un gesto che significherebbe riconoscimento del suo lavoro e legittimazione di un’esistenza. Che significherebbe libertà dalla sua prigione autoimposta, libertà nell’accettazione di sé e degli altri.

J.Edgar e Nemico pubblico, allora, come due facce di una medesima medaglia.
Non per il facile parallelismo tra Hoover e Dillinger, non per il cinema come luogo deputato alla rappresentazione che appare sia nel film di Eastwood che in quello di Mann. Ma per il racconto di due vite antitetiche rispetto ad un’idea di libertà e individualità, portata verso autodistruttivi estremi anarchici ed edo-narcisisti da un lato e verso la conformazione iperreazionaria e omologante dall’altro.
Una polarità, questa, che la vita e la politica statunitensi ancora non sembrano aver conciliato in una sintesi che potrebbe essere un nuovo inizio.

Ma a Eastwood, la politica non interessa (più).
La vita invece sì, e molto. E la tremante partecipazione con cui racconta la vecchiaia del suo protagonista, la fatica e il dolore che possono causare gli imperativi di un bilancio esistenziale, sono sinceramente commoventi.
Tanto più quanto l'assenza di giudizio morale che contraddistingue tutta la narrazione regala a J.Edgar una profonda ed etica moralità.




  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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