In between dying: recensione del film azero di Hilal Baydarov presentato in concorso al Festival di Venezia 2020

11 settembre 2020

Il viaggio di un giovane in cerca di risposte è al centro del film in between dying di Hilal Baydarov, presentato in concorso al Festival di Venezia 2020.

In between dying: recensione del film azero di Hilal Baydarov presentato in concorso al Festival di Venezia 2020

Un giorno speciale, per compiere un intero ciclo di vita alla ricerca della sua vera famiglia. Il concetto di vera è declinato in maniera particolarmente spirituale, come tutto questo film, titolo internazionale In between dying, che mette sulla cartina geografica dei festival internazionali un paese molto poco presente come l’Azerbaijan e il suo autore, Hilal Baydarov.

Davud, questo è il nome del giovane, è impegnato nella ricerca per eccellenza, quella del senso della vita, insoddisfatto com’è di quella che vive, che gli sembra ogni giorno vuota. Un film materico, in cui i luoghi della natura sono al centro della ricerca, in un percorso trascendente quasi mistico, fra laghi, montagne, fango e una serie di incontri a cui Davud cercherà di dare un senso, con l’eco di antichi proverbi e melodie che a un pubblico occidentale suonano esotiche, come del resto tutto il film, più che pregne di significato. Non manca l’amore, al centro del viaggio, anche se i tempi anche per lui saranno cruciali per non farselo sfuggire.

È anche una fuga, la sua, da due scagnozzi di una sorta di boss locale, dopo che per un’offesa alla sua fidanzata uccide durante una zuffa un uomo. Al centro la figura femminile soggiogata nella cultura azera, in cerca a sua volta di un percorso di rivalsa e liberazione. Il suo è un viaggio onirico in cui la morte è presente costantemente, così come i ricordi presi direttamente dalla sua coscienza, in modo da rendere il suo un percorso di autoanalisi a tappe forzate, e dalla durata solo di un giorno.

Strano caso di coproduzione fra Azerbaijan e Messico, con alle spalle Carlos Reygadas, il film è un classico prodotto da festival, difficilmente digeribile, poco sostenuto da valori produttivi e tecnici di modesto livello e una struttura francamente ostica e respingente.

Rivendica un linguaggio e una spiritualità molto personale, o quantomeno legata alla propria cultura, ma in questo modo la rende una storia incapace di suscitare empatia. Non aiutano interpretazioni, verosimilmente non professioniste, oltre i limiti dell’amatoriale. Uno di quei film che  anche i grandi festival internazionali selezionano forse più per aggiungere una bandierina su una nuova nazionalità che per reale convinzione. Di certo, ci associamo alla ricerca di senso di Davud, che è anche la nostra, con la differenza che la nostra anche alla fine rimane senza risposta.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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