Im Keller - la recensione dal Festival di Venezia del film di Ulrich Seidl

29 agosto 2014
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Dopo un inizio potente e interessante, il regista cede le redini del racconto al suo cinico e inutile sadismo.

Im Keller - la recensione dal Festival di Venezia del film di Ulrich Seidl

Sulla carta, Im Keller era un'operazione di notevole interesse e di grandi potenzialità. Nell'esplorazione di quanto viene nascosto e coccolato nelle cantine del popolo austriaco, lo sguardo spietato, curioso e imperturbabile di Ulrich Seidl poteva trovare davvero la sua collocazione ideale, la sua dimensione naturale. E in effetti, nel corso di una prima mezz'ora potente e interessante, nel corso della quale il regista ci porta a conoscere poligoni nascosti gestiti da cantanti d'opera falliti, pitoni albini, anziane che coccolano bambole di neonati dal disturbante realismo e nostalgici del Terzo Reich alcolizzati e appassionati di musica, Im Keller promette davvero bene.

Poi, però, qualcosa cambia.
Come un trottatore che non ce la fa più a trattenersi, e rompe in un galoppo furibondo e (per lui) liberatorio, Seidl cede alla sua natura, alla sua ansia cinica, spietata, sadica.
Non è perché entra in scena il sesso, nelle sue varianti più difformi e oscene, nelle degradazioni sadomaso e feticiste: non siamo né sessuofobi né moralisti. Ma è perché cambia lo sguardo di Seidl, uno sguardo che dietro l'apparenza di algida oggettività (e, in questo caso, sotto l'ipocrita ombrello del termine "documentario") nasconde un compiacimento perverso e difficilmente accettabile.

Come la dominatrice che sembra non provare alcun godimento ma freme nell'appendere il suo schiavo per le palle, Seidl dissimula l'emozione tutta interiore di mostrare a noi (che gli piacerebbe immaginare come sue schiavi) una scena che simbolica e metaforica di tutto il suo cinema.
Perché Seidl ci fa soffrire, ma noi non ne ricaviamo né piacere né tantomeno stimoli intellettuali. E la violenza di Seidl è tanto nell'indugiare su certe situazioni, tanto nel ridere sotto i baffi di certi personaggi, o nell'imporgli innaturali momenti di fissità e immobilità che squarciano completamente ogni possibile velo documentario allo scopo di mettere sotto il riflettore il loro ridicolo.

Coi freak che scova con straordinaria capacità, Seidl in realtà non vuole avere nulla a che fare: li guarda dall'altro in basso, li usa come cavie da laboratorio. Non prova né disgusto, né disagio, né empatia: non prova nulla. Li oggettivizza, li degrada, li spoglia di dignità. Li riduce a cavie da laboratorio per compiere esperimenti di cinema e sociologia senza reale scopo, che sotto la maschera dello studio e della scienza nascondono solo crudeltà e disumanità.
Facevano così anche altri personaggi, un tempo. Personaggi con cui la Storia, fortunatamente, è stata assai meno indulgente di quanto la critica non faccia con Seidl.





  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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