Il sindaco del rione Sanità: recensione dell'adattamento contemporaneo di Eduardo diretto da Mario Martone
Presentato in concorso al Festival di Venezia 2019.
Le apparenze ci dicono come la principale variazione nella versione di Mario Martone per il cinema de Il sindaco del Rione Sanità (parente diretta di una teatrale) sia l’ambientazione contemporanea, quando, con un occhio più attento al testo originale si nota come questo adattamento, in realtà molto fedele, ringiovanisca il protagonista, Antonio Barracano, che non è più un anziano di 75 anni, ma al massimo un quarantenne, interpretato da Francesco Di Leva. Attore che ha iniziato la sua carriera in un laboratorio teatrale proprio con Martone, prima di farsi notare in Pater familias e Una vita tranquilla. Una scelta legata a una criminalità che ormai ha abbassato la sua età media, fino a rendere poco verosimile, rispetto agli anni ’60 della pièce, che il boss di un quartiere possa giungere anziano ancora in vita e sul trono.
Martone ha replicato una struttura molto lineare in tre atti, scandita dai momenti girati in esterna che allargano lo spazio narrativo, anche con qualche ormai inevitabile giro di drone, concentrando i tre momenti cruciali nei due appartamenti del protagonista: il palazzo d’inverno e il palazzo d’estate del Re del rione, potremmo dire; una è una villa arrampicata alle pendici del Vesuvio e l’altro un buio e tentacolare appartamento che si insinua fra i vicoli della Sanità. Il ritmo è subito musicale, per la precisione rap, secondo la volontà del regista, e asseconda una musicalità nei dialoghi, molto fedeli, che vengono modernizzati più che altro proprio per le modalità con cui vengono inserite le pause o accelerati i momenti di maggior tensione.
Quello che non cambia è il vero governo parallelo che risponde a Barracano, uomo d’onore capace di distinguere “gente per bene e gente carogna”. Il sindaco viene consultato per questioni davvero di ogni tipo, e alla figura cruciale del medico, vero guardasigilli pronto a rendere legale ogni versione fantasiosa su morti e accidenti vari, interpretato con la consueta bravura da Roberto De Francesco. Non manca il panettiere, altra figura chiave, la cui ritrosia a inchinarsi alla giustizia parallela del boss scatenerà la violenza trattenuta, sempre più metaforica che altro, dell’ultimo terzo del film.
Rimane infatti intatta la potenza della scelta del sindaco, che cede agli eventi in nome di un tentativo estremo di conciliare un padre e un figlio, quasi con intenti cristologici di sacrificio per il bene di tutti i suoi apostoli e discepoli. Qualche modifica interviene giusto nella parte conclusiva, cercando di rendere più attuale una morale e alcune dinamiche dell’originale eduardiano che ci sembrano aver sentito il peso degli anni trascorsi dal 1960 a oggi. Napoli ha ormai superato il dualismo manicheo e morale bene e male, che ha lasciato spazio un indistinto grigio senza confini, dolente e ambiguo come i protagonisti di questa nuova versione, andante con brio, del classico teatrale.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito