Il signor Rotpeter: recensione del film di Antonietta De Lillo che porta Franz Kafka nella Napoli di oggi

14 settembre 2017
3.5 di 5
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Si parte da "Una relazione all'università" e lo si mescola con le Tre donne morali di Marcello Garofalo: anzi, con una sola, Marina Confalone.

Il signor Rotpeter: recensione del film di Antonietta De Lillo che porta Franz Kafka nella Napoli di oggi

Prendere un racconto di Franz Kafka che ha cent’anni tondi tondi, trasportarlo nella Napoli di oggi e mescolarne la struttura con quella delle interviste delle Tre donne morali di Marcello Garofalo, qui proprio co-sceneggiatore.
Questa è l’operazione compiuta da Antonietta De Lillo con Il signor Rotpeter, esempio limpidissimo di un cinema libero e originale, fuori da ogni schematismo e convenzione a partire dalla sua durata, 37 minuti che non ne fanno né un corto né un lungo, che lo rendono incollocabile eppure, paradossalmente, collocabile ovunque.

Nelle sue scelte formali come in quelle narrative, la regista napoletana sembra aver voluto ribadire la natura aliena, provocatoria e spiazzante della sua opera, una natura che sembra voler ricalcare quelle del suo protagonista: scimmia divenuta uomo, interpretata poi da una donna, la straordinaria Marina Confalone, che il testo di Kafka l’ha recitato per davvero davanti a una platea in un'aula dell’Università Federico II, e che era stata una delle donne morali di Garofalo.
Ecco allora che, ancora una volta, Il signor Rotpeter spiazza, con quei segmenti così fedeli al testo originale, e così teatralmente recitati, alternati alle sequenze di un’intervista attraverso la quale il materiale kafkiano trova espansione e legami inediti con i tempi che viviamo.

Se all’Università Rotpeter è in cattedra, in tutti i sensi, nell'intervista è dialogico, anzi socratico. Intervista che, con finezza registica la De Lillo diffonde orizzontalmente in svariate location: tanto gli interni di una casa bellissima, quando esterni che sono giardini verdeggianti e rigogliosi, ribadendo in questo modo il doppio binario tenuto insieme dal discorso e dall’essenza stessa di Rotpeter: l’umano e l’animale, la Cultura e la Natura.
Non sta nel superamento dell’una a favore dell’altra cosa, il senso dell’esistenza di Rotpeter e del film della De Lillo: sta nella loro coesistenza, nel riconoscimento “della percentuale di scimmia mancante” che è in lui e in ognuno di noi, invece che nella sua negazione.

In questo modo, Il signor Rotpeter, con il suo dialogo incessante con lo spettatore, ci mette di fronte a uno specchio, alle nostre mancanze, alle nostre speranze. Racconta di una vita che è lotta per la sopravvivenza, necessità di coesistenza, di un senso dell’evoluzione che sta nel “non dimenticare da dove veniamo”, e dalla rinuncia ironica e sorridente a un utilizzo del potere arrogante e lungo traiettorie tradizionali.
Meglio godere delle domeniche a Capodimonte, mangiando quel che si vuole, qualsiasi cosa essa sia. Perché se, come dice Rotpeter, lui è “l’eccezione che non fa primavera”, tante eccezioni porteranno sicuramente a qualcosa.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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