Il mio vicino Adolf: la recensione del film con Udo Kier

03 novembre 2022
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Gli occhi di Udo Kier sono al centro di un dramma con barlumi di commedia sospeso fra memoria e un presente in un altro mondo. Hitler potrebbe essere ancora vivo in Argentina negli anni Sessanta? La recensione di Mauro Donzelli de Il mio vicino Adolf, visto a Locarno 2022.

Il mio vicino Adolf: la recensione del film con Udo Kier

Una storia di confine, quella de Il mio vicino Adolf. Il confine fra due memorie, il confine fra un passato doloroso e un presente che non può fare a meno di farne i conti, con la disperata utopia di superarlo. Ma anche il confine fra commedia e il dramma più cupo di tutto il Novecento. Un oggetto misterioso come gli occhi di Udo Kier, un grande “monumento” del cinema altrettanto di confine: fra i generi e le sue due patrie, la vecchia Europa e Hollywood.

Uno steccato di legno segnato dal tempo. Un confine che divide due villette di campagna decadenti nella campagna colombiana del 1960, ma anche due universi contrapposti: quello delle vittime e quello dei carnefici. Da una parte un burbero e solitario anziano ebreo polacco, sopravvissuto all’Olocausto al contrario della sua famiglia, dall’altra un tedesco appena trasferito, che secondo il primo non è altro che Hitler in persona. Lo riconosce dagli occhi, dallo sguardo di ghiaccio che aveva incrociato decenni prima a Berlino. Siamo nei giorni in cui in Argentina il Mossad rapì Eichmann per processarlo in Israele. 

Un’indagine portata avanti con ogni energia per dimostrare la sua stramba teoria con delle prove oggettive diventa da quel momento l’unico scopo quotidiano della sua vita. Ovviamente nessuno gli crede, neanche al consolato israeliano. Cerca di interagire con il nuovo arrivato per ottenere la conferma dei suoi sospetti, ma come avvicinarsi al male assoluto? Gli iniziali scambi pieni di tensione si sciolgono nella condivisione dell’amore per gli scacchi. I due sembrano avventurati sull’orlo di un’amicizia, che per il protagonista rischia di diventare un baratro morale, ampio quanto identificare dell’umanità nel tuo peggior nemico, che sia Hitler o il popolo tedesco.

Quello messo in scena dall’israeliano Leon Prudovsky è un universo sospeso nel tentativo del superamento impossibile della ferita insanabile per eccellenza del Novecento: la Shoah. Un universo in cui il passato remoto, il ricordo di chi c’era e ora non c’è più, è l’unico elemento vitale che permette al protagonista di affrontare il presente, magari grazie a consigli di famiglia come sbriciolare dei gusci d’uovo per far fiorire con il massimo splendore delle rare rose nere. Gli strumenti utilizzati ne Il mio vicino Adolf sono quelli nobili della tradizione yiddish: dolore e ridicolo, assurdo e grottesco, con barlumi di inusitata dolcezza, come una chiacchierata notturna fra i due vicini amici/nemici, in cui la condivisione passa per il sapore proustiano di un cetriolo sottaceto, capace di rievocare una vicinanza culturale e quotidiana.

Un equilibrio delicato mantenuto anche grazie alla maestria di due interpreti in stato di grazia come Udo Kier e lo scozzese David Hayman, che torna a interpretare un ebreo passato per i campi di sterminio dopo Il bambino con il pigiama a righe. Un confine mantenuto inviolato, in cui è difficile dare risposte se non consigiliare di affacciarsi oltre quello steccato, guardarsi negli occhi in maniera sincera, elaborando e non superando o spazzando via il passato senza tramandarne le responsabilità.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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