Il medico di campagna: recensione del delicato dramma francese con François Cluzet

20 dicembre 2016
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Ritratto non privo di ironia di un medico in giro per le campagne.

Il medico di campagna: recensione del delicato dramma francese con François Cluzet

Lo prevedono tutti gli adagi dell’autore cinematografico all’esordio: parlare di quello che si conosce, è vicino. Allora non deve stupire che il francese Thomas Lilti abbia raccontato nel riuscito e putroppo da noi inedito Hippocrate la storia di un giovane medico alla prima prova in ospedale. Infatti Lilti ha affiancato fin da giovanissimo la passione per il cinema con quella per la medicina, che pratica tuttora, dopo anni di esperienza come sceneggiatore in televisione e al cinema. Ora con la sua opera terza, Il medico di campagna, sposta la sua attenzione sulla figura del maturo dottore generalista di campagna Jean-Pierre, sfruttando ancora una volta alcune sue esperienze dirette. Una figura affascinante, quella del guaritore a domicilio, con la sua borsa di pelle accanto alla vita, che gira per la provincia francese portando la sua sapienza di guaritore, ma soprattutto la saggezza di qualche parola ben spesa. Incontri particolari Jean-Pierre ne fa da tanti anni, lui che vive per il suo lavoro, giorno e notte, sette giorni su sette, e ha la fiducia cieca dei suoi pazienti.

Il suo quotidiano cambia quando inizia il trattamento per un tumore al cervello, obbligandoto a rallentare la sua attività. “Devi smettere di lavorare, se vuoi avere una possibilità di guarire”, gli dice Il suo oncologo, il quale gli invia in studio senza preavviso un aiuto, quello di Nathalie, mettendo alla prova la sua burbera incapacità di socializzare con i colleghi. Proprio lui abituato a far sempre di testa sua, a prendere decisioni da solo, in silenzio.

Il medico del titolo ha il volto segnato di François Cluzet, lo ricorderete in Quasi amici, ormai uno dei maggiori attori del cinema francese, e non solo. Presta ancora una volta il suo volto malinconico, ma affidabile, a un film senza fronzoli, che avrebbe gli ingredienti per esplodere in un melodramma esistenziale, ma è troppo riservato per farlo, come il suo protagonista. Il suo è un senso del dovere fuori dalla nostra epoca, un po’ come il mestiere di medico di campagna, in via d’estinzione; la sua missione non ha niente di eroico, ma qualcosa di arcaico: la ritualità dell’auscultazione con lo stetoscopio, del paziente che si spoglia. Un film di gesti meticolosi e di (poche) parole necessarie, anche quelle del malato da ascoltare, visto che “l’80% della diagnosi viene da loro”.

Carrellata di pazienti, pregno di umanità, regala il rapporto poco convenzionale di un uomo solitario e di una donna, Nathalie, non più giovanissima, che vuole ricominciare. Lui la vede come un’intrusa all’inizio, un problema perché non vuole che si sappia della sua malattia. Troppo forte, però, è il suo bisogno di trasmettere la sua sapienza, l’esperienza dei suoi pazienti, a cui sente di dovere una sostituta capace, come Nathalie si dimostrerà presto. Una coppia molto convincente e dalle dinamiche mai scontate, in cui Marianne Denicourt, vista negli anni ’90 in alcuni film di Desplechin, non è da meno del tenero burbero François Cluzet.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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