Il Grande Salto: la recensione del film d'esordio alla regia di Giorgio Tirabassi
Una commedia divertente e malinconica con puntate nel grottesco e nel surreale. Nel cast lo stesso Tirabassi e Ricky Memphis, ma ci sono anche cammei per Valerio Mastandrea e Marco Giallini
Bastano una manciata di minuti, e di fronte all’aggirarsi di Rufetto e Nello per una periferia indistinta che mescola Tor Pignattara con Ciampino e la parte più meridionale della Capitale, davanti alla loro disfatta esistenziale, ammorbidita e masticata dal disincanto sarcastico tutto romano, si respira subito l’aria fresca di un cinema che non c’è più da tanto, troppo tempo.
L’aria della grande commedia popolare italiana, quella nata negli anni Cinquanta da due padri nobilissimi come Steno e Monicelli, quella che raccontava - prima della virata agra del Sordi più arcitaliano, o del Tognazzi più sulfureo - di quei tanti poveri disgraziati che tiravano a campare, in un modo o in un’altro, nell’Italia del secondo dopoguerra.
Rufetto e Nello sono la versione aggiornata e accordata ai nostri tempi dei Soliti ignoti, magari anche dei Mandrake e Pomata di Febbre da cavallo, ma rispetto a quei personaggi - e a quegli anni comunque lontani, e a quella Roma così diversa - provano un tormento e un’ansia che prima non c’era, che era in qualche modo inconcepibile. Perché, allora, potevi comunque essere povero, sfigato e sconfitto, ma alla fine un barlume di speranza lo portavi dentro sempre, il pensiero che il futuro sarebbe stato migliore del presente non ti abbandonava mai davvero.
Oggi, invece, non è così. E l’ottimismo di Rufetto e di Nello è evidentemente solo di facciata: lo sanno benissimo che questa Roma, questa Italia, questa realtà non offre più speranze. L’unica, dopo averle provate tutte, è la fuga: che sia alla volta di Rieti, delle Marche o della Spagna, poco importa.
Che strano film, e che esordio coraggioso che è Il grande salto.
Giorgio Tirabassi - che è un attore fenomenale, e lo conferma qui per l’ennesima volta - si poteva accontentare di far ridere; di girare l’ennesima commedia alla romana, alla Edoardo Leo, alla Massimiliano Bruno. Ma non solo ha avuto l’ardire e l’intelligenza di guardare con rispetto al cinema di maestri di ben altro calibro - sì, Steno e Monicelli, ma pure Risi e Citti - ma anche quello di raccontare una storia dove alla risata (e che risata, grazie a dei gran bei dialoghi e battute destinate a diventare cult, e alla recitazione di un cast notevolissimo), si affianca inevitabilmente, inesorabilmente - e in maniera via via più sfacciata - la malinconia.
Certo, per farlo Tirabassi ha dovuto correre dei rischi. Se da interprete cammina con una naturalezza stupefacente sul filo sottile che unisce la farsa e la tragedia, da neo-regista qualche passo falso lo fa (anche perché poi il percorso si complica, passando anche fugacemente per il grottesco e il surreale), e non sempre mantiene l’eleganza del gesto, o persino l’equilibrio necessario.
E però anche quando sbaglia, è capace di suscitare l’ ammirazione per il coraggio, e la tua solidarietà, e perfino di rimettersi in piedi e di ricominciare il suo numero come nulla fosse accaduto, facendoti scordare l’errore.
La sua determinazione è testarda e caparbia come quella di due protagonisti cui non puoi non volere bene, che non si fermano mai a dispetto delle mille sfighe e dei continui fallimenti; che vanno avanti a sfidare un destino che non sarà solo beffardo, ma proprio crudele, riuscendo perfino - nel finalissimo del film - a giocarsi bene le pessime carte che gli sono state servite.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival