Le grand chariot: recensione del film di Philippe Garrel in concorso al Festival di Berlino

22 febbraio 2023
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Louis e le due sorelle sono protagoniste del nuovo film di Philippe Garrel Le grand chariot su una famiglia di marionettisti alle prese con la modernità. La recensione di Mauro Donzelli del film presentato in concorso al Festival di Berlino 2023.

Le grand chariot: recensione del film di Philippe Garrel in concorso al Festival di Berlino

Le risate di bambini elettrizzati davanti a uno spettacolo di marionette. Si apre così questo film, con la spensieratezza e il candore di anime pure alle prese con le prime contaminazioni con il racconto di storie e una forma di performance dal vivo antica al punto di essere desueta. Dalle parti del teatro, ma senza il mostrarsi in volto degli interpreti, per quello è la macchina da presa a lasciare la platea per avvicinarsi, dietro alla scenografia lavorata e dipinta a mano, al gruppo di marionettisti intenti in una coreografia abile e accurata, in cui il movimento fra di loro in uno spazio angusto sembra una danza e la recitazione facciale, pur chiaramente presente, non è mostrata al pubblico di bambini, ma a noi spettatori di Le grand chariot di Philippe Garrel, uno dei pochi per lui non in bianco è nero.

Sono semmai in primo piano colori pieni, scuri, quelli che rendono suggestivo questo antico mestiere, al centro del nuovo racconto sull’amore, questa volta più sbilanciato su quello famigliare, da parte dell’ultimo degli ultimi autori della nouvelle vague, come viene definito con notevole approssimazione. Anche se a lui piace definirsi un discepolo di Godard. In un periodo particolarmente florido della sua multiforme e discontinua carriera, Garrel si affida ai suoi tre figli per mettere in scena la compagnia di teatro di marionette. Non solo Louis ed Esther, ma anche la meno nota Léna, nata da un’altra compagna. Il capofamiglia è interpretato da Aurélien Recoing, nei panni un po’ del regista stesso, che quasi sempre ama mettere in scena alter ego o artisti.

Parlando di artisti e di famiglia, emerge in primo piano, almeno nella prima parte de Le grand chariot, sicuramente la più riuscita, proprio lo sguardo affascinante su un “affare di famiglia”, così antico e vissuto con passione totalizzante. Vivono in una grande casa ai margini di Parigi, fra convento e fabbrica artigianale, in cui ogni cosa è sviluppata da loro: la scrittura delle storie, la messa in scena e la recitazione, partendo dall’allestimento delle scenografie, poi dipinte dall’unico esterno, anche “attore” ora che il padre inizia a sentire la stanchezza degli anni dietro al palco e a mani alzate e sempre in movimento ad animare un pupazzo.

Una delle forme più ancestrali di messa in scena, con elementi quasi magici, almeno vedendo come suscitano una partecipazione così viva, rumorosa e pura da parte dei più piccoli, artigianale e artistica, proprio come le vecchie compagnie teatrali si nutre del suo girovagare, di un nomadismo quasi pionieristico in cerca di un nuovo pubblico. Un circo con la principale attrazione rappresentata dall’amore per il racconto e le storie che sanno di antico. Ma è difficile rientrare dei costi e viverci, oggi, per la famiglia. I giovani sembrano contenti del loro esilio monacale, senza che l’amore o il sesso sembrano far parte della loro vita. Un malore del padre inizia a provocare le prime crepe, dopo che la più giovane è sempre più coinvolta nella modernità come militante Femen, non limintandosi a leggere sdegnata il giornale in ricordo di vecchie lotte come il capofamiglia o la nonna.

A quel punto Le grand chariot si allontana dalla patina fascinosa e un po’ sommersa da colori antichi e polvere dell’universo delle marionette per allargare il discorso alla vocazione artistica in generale, avventurandosi in territori ben più battuti e consueti, con una lunga divagazione sul pittore/attore amico della famiglia, su un suo amore folle per una giovane ragazza, ma soprattutto sull’elemento ossessivo della sua arte. Anche Louis (Garrel) inizia a esprimersi su un altro palco, quello teatrale, assurgendo a rapida fama, o quantomeno a un buon successo che lo spinge lontano dalle due ultime giapponesi, le sorelle. Se la sacralità eremitica del nucleo familiare ci intriga, proprio per la sua diversità in quel contesto così speciale, la tirata sull’artista folle o sul successo che supera la chiamata divina dell’arte ci sembrano decisamente meno interessanti. 



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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