Il giorno dell'incontro, la recensione: un elogio della caduta che omaggia il bel cinema purtroppo passato di moda
Un pugile in cerca di redenzione trasforma le ore prima del suo ultimo match in una sorta di via crucis laica. La recensione di Il giorno dell'incontro di Federico Gironi.
Mike Flannigan, noto sui ring come Irish Mike, per tutti Mikey, si sveglia al mattino nel suo squallido appartamento di Brooklyn (siamo all’alba degli anni Novanta, la gentrificazione ancora non c’era stata, e pure gli hipster erano di là da venire). Sistema alcune cose, infila un po’ di vestiti in una sacca, prende una cassetta da ascoltare col walkman e esce di casa. Esce di casa e inizia una lunga giornata scandita da una lunga serie di tappe prestabilite in anticipo: la colazione, l’allibratore, la visita all’amico prete, l’allenamento, la ex moglie e via dicendo.
La sera di quella giornata Mikey, dopo anni molto difficili, dopo troppo alcol, una separazione, un brutto incidente, la prigione, ha la chance di una vita: un incontro per il titolo dei pesi medi, quel titolo che in passato era già stato suo.
Come andrà a finire questa giornata, più o meno possiamo intuirlo da subito: perché all’inizio del suo film Jack Huston piazza un flashback sul passato di Mikey che non passa inosservato, dandoci una informazione che risulterà cruciale; e perché il tono del film non lascia adito a dubbi.
Quella di Mikey è una giornata di espiazione. Espiazione delle sue colpe passate. Mikey vuole sistemare un po’ di cose, chiudere un po’ di conti rimasti aperti, chiedere o donare perdono.
Quella di Mikey è una via crucis laica, e sappiamo un po’ tutti come vada a finire una via crucis.
Allora Il giorno dell’incontro è un film sul pugilato a tutti gli effetti, anche se il pugilato occupa una parte irrisoria della sua durata: perché da che cinema è cinema i film sul pugilato sono film che parlano sempre di altro, e quasi sempre questo altro è un riscatto di qualche tipo. Tentato o realizzato.
Che Huston abbia deciso di girare il suo film in bianco e nero è poi un chiaro riferimento a quanto fatto da Scorsese in Toro scatenato, ma c’è da ringraziare il cielo per il fatto che il primo regista non abbia voluto cercare di emulare il secondo, andandosi a schiantare contro il muro delle ambizioni eccessive.
No, il bianco e nero - che, per paradosso, si vena appena di colore nei vari flashback che si inseriscono nel racconto - è per Huston funzionale a dare, a ragione, l’idea di un film e di un cinema che sono classici, fuori dal tempo frenetico del presente; è funzionale al tono malinconico e emotivo della vicenda che racconta.
Non c’è solo il bianco e nero: ci sono i volti degli attori, tutti scelti con cura, dal protagonista Michael Pitt fino a quei personaggi che vedi solo in un paio di inqiuadrature, passando per gente come Steve Buscemi, John Magaro, l’immenso Joe Pesci, protagonista muto di una scena di grande intensità nel ruolo del padre di Mike. C’è una città che è lontana da ogni luce della ribalta, e raccontata solo nelle sue realtà più marginali e proletarie. Tutto sembra, insomma, evocare il fantasma di un cinema che è quello della New Hollywood, e un’idea springsteeniana di Stati Uniti e di americani (anche se ad aprire il film è un brano del Sixto Rodriguez cui è dedicato il bellissimo documentario Sugarman).
Se poi pensiamo che il titolo del film è lo stesso di quello del primo corto di Stanley Kubrick, che faceva una cronaca documentaristica simile a quella pensata da Huston, il cerchio si chiude.
E però forse proprio quest’ultimo indizio è anche la spia di quello che potrebbe essere il problema principale, e unico, di questo film. Che è un film che nasce da passioni e intenzioni chiare e sincere ma che, declinandole in maniera un poco programmatica, rischia di dare l’impressione di essere eccessivamente costruito, e un po’ troppo prevedibile.
Ma l'eccesso di Huston è eccesso di generosità. E alla fine Mike trova la sua redenzione, e noi spettatori, specie di fronte al ricordo, o l’allucinazione, di una lezione di vita di suo padre, troviamo la nostra piccola ma utile commozione. Perché alla fine dei conti Il giorno dell’incontro è un film di perdenti che però hanno saputo mantenere, o ritrovare, una bussola morale. Qualcosa che oggi appare smarrito da tutti: a volte più da chi vince che da chi perde.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival