Il complottista: la recensione del film di Valerio Ferrara
Il giovane regista romano espande il suo premiato cortometraggio (che si intitolava Il barbiere complottista) e tenta la strada oramai poco battuta della commedia all'italiana capace di ritrarre i tanti vizi e le poche virtù del mondo contemporaneo. La recensione di Il complottista di Federico Gironi.
A pensarci bene, un film come Il complottista lo si dovrebbe salutare con un certo qual entusiasmo anche solo per una sola, singola cosa: per il fatto di essere l’opera prima di un ragazzo di 28 anni che, invece di voler essere autore pensoso e nuchista cantore di disagi, pecore e periferie, e al posto di raccontare le mille e una nevrosi e precarietà della generazione cui appartiene, ha deciso di intraprendere oggi, come diceva Robert Frost, la strada meno battuta. Che è quella della commedia.
Non, attenzione, la commedia più o meno pecoreccia, o post-vanziniana, o presuntuosamente - e noiosamente - d’autore, o figlia della comicità televisiva, che per troppo tempo ha rappresentato il grosso produttivo del nostro cinema medio.
No, la commedia ricercata da Ferrara è quella “all’italiana” nel senso più filologico e nobile del termine. Quella che è capace di parlare di un paese, di un popolo, della società e i suoi tanti vizi e delle sue eventuali poche virtù attraverso personaggi esemplari, e un tono che mescola il comico, la satira e il grottesco senza mai dimenticare l’importanza del dramma.
Quella commedia che sa essere amara, che fa ridere, sì, ma che lascia sempre dei dubbi, dei tarli nella mente dello spettatore (“oddio, non che pure io…?”) invece di limitarsi, come troppo spesso è accaduto, nel fare ritratti nei quali piace rispecchiarsi con stolido orgoglio (“anvedi, proprio così oh…”).
Così come nel premiato cortometraggio che sta alla base di questo film, protagonista del film è Antonio, un barbiere della periferia est di Roma con una chiara inclinazione alla dietrologia e al complottismo. Prima si convince che il lampeggiare del lampione fuori dal suo negozio mandi messaggi in codice (Morse), poi quando la Digos si presenta a casa sua, usa la cosa per dimostrare a sé stesso, e ancora di più agli altri, parenti o amici che siano, che ha ragione, e che il Sistema già sta cercando di metterlo a tacere.
Solo che la Digos si era rivolta a lui perché degli hacker erano entrati nel suo computer rubandogli l’identità, ma questo Antonio non lo dice, preferendo cavalcare una imprevista credibilità, che aumenta dopo essere entrato in contatto con un gruppo di poveri disgraziati che, come lui, amano i complotti e che sono molto attivi in rete, tra video, forum e improbabili siti vari.
Così, dai rant al bar contro Bill Gates e il 5G, Antonio inizia a parlare di bombe e pericoli nucleari (lo dicono i lampioni) e a un certo punto pure la politica, nella persona di un deputato ambiguo e destrorso, prova a cavalcare la sua improbabile battaglia.
Ora. Sarebbe da parte mia un disservizio, prima di tutto nei confronti del film e del simpatico Valerio Ferrara, se stessi qui a dire solo bene e benissimo del Complottista.
La verità, quella stessa che coi complotti e le dietrologie non ha nulla a che vedere, è che questo primo lungo di Ferrara non è esente da alcuni problemi e difetti: che il soggetto, che parte da quello di un precedente corto del regista, e che ha qualche difficoltà a reggere il lungo è uno questi; un altro è che si sarebbe potuto lavorare di più sulla caratterizzazione psicologica di un protagonista che appare un po’ troppo in balia delle persone che ha a fianco e del destino, e del quale non si comprendono bene le vere motivazioni e le reazioni; a voler essere pignoli non si capisce nemmeno perché, in un film ambientato a Roma Est, tra il Quadraro e la Certosa, Antonio abbia l’accento francese di Fabrizio Rongione, una moglie romana (Antonella Attili) e un cognato calabrese (Antonio Gerardi).
Nel complesso, e in sintesi, Il complottista avrebbe potuto essere più film, avere più spessore, più tridimensionalità.
Tutto questo, però, non significa affatto che Ferrara non abbia intrapreso la strada non solo meno battuta, e quindi più impervia, ma più giusta; né che non abbia dimostrato di avere il passo e il ritmo giusti per continuare a percorrerla con successo.
Perché Il complottista azzecca situazioni che sono comiche senza essere banali e scontate; perché il dichiarato amore del suo autore per i Coen e il loro strampalato surrealismo è espresso tra le righe e nelle atmosfere, senza la velleità di essere un'inevitabilmente pallida imitazione; perché il fatto di essere stato realizzato da un troupe composta tutta da giovani e giovanissimi non è solo encomiabile, ma fa risultato; perché Ferrara dimostra di avere un occhio non comune per i volti (da quello di Fabrizio Contri a quello di Bruno Pavoncello, passando per tutti gli altri) come una notevole attenzione ai luoghi, ai dettagli, al contorno.
Soprattutto, perché invece di stare a guardare l’ombelico suo e dei suoi simili, o di inventarsi etno-antropologo di minoranze e frange marginali e periferie, l’autore del Complottista è stato in grado di alzare lo sguardo, mettere a fuoco e raccontare senza moralismi e con umorismo un mondo che - per solitudine, frustrazione o magari ingenua convinzione - sta al nostro fianco giorno dopo giorno: in rete, al bar, sui giornali, nelle case.
Il mondo dei “non ce lo dicono”, delle spunte blu, delle scie kimike e dell’establishment cattivo che ci inibisce e reprime e decide al posto nostro. Quello che passa da 4chan e similari, dalle riunioni online di certi picchiatelli e da certe manifestazioni di piazza e arriva poi sulle nostre bacheche, nelle nostre famiglie, sugli scranni dei nostri parlamenti.
Quel mondo che è parte rilevante della nostra società e, ahinoi, del suo futuro.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival