Minamata: la recensione del dramma interpretato e prodotto da Johnny Depp presentato al Festival di Berlino 2020

21 febbraio 2020
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L'inquinamento del mare fonte di vita per una piccola comunità giapponese e l'ultimo ebbre servizio di uno dei foto giornalisti simbolo del Novecento.

Minamata: la recensione del dramma interpretato e prodotto da Johnny Depp presentato al Festival di Berlino 2020

Un progetto voluto fortemente da Johnny Depp, quello di Minamata. Un progetto che unisce due mondi a cui è legato l’attore: da una parte l’eccentricità di un’icona dell’arte espressiva come il fotografo molto rockstar maledetta W. Eugene Smith, lui che era uno dei migliori amici del suo punto di riferimento attoriale, Marlon Brando; e dall’altra la sempre più forte volontà di mettere la sua grande popolarità al servizio di cause importanti come la tutela dell’ambiente e il rapporto equilibrato fra i suoi abitanti e la natura. Non solo, c’è anche la volontà di ribellarsi a un’ingiustizia, colpevolmente tollerata per decenni dalle autorità.

Partiamo dall’ambientazione del film di Andrew Levitas. Siamo nel 1971 a New York, dove vive un’icona del fotogiornalismo come Smith, ovviamente interpretato da Depp, anche produttore del film. Fino ad allora era celebre per i racconti per immagini della Seconda guerra mondiale, in cui aveva concentrato il suo occhio soprattutto sulla gente comune alle prese con un evento di proporzioni così inaudite. Vive da recluso fra bottiglie di whisky e la sua stanza di sviluppo. Il direttore dell’iconico Life Magazine (Bill Nighy) gli propone di recarsi in una cittadina sul mare del Giappone, MInamata, per scattare uno dei suoi reportage sulla varietà dell’inquinamento da mercurio che stava distruggendo la pesca locale e soprattutto aveva già mietuto molte vittime e nuove nascite deformi.

Un primo rifiuto si tramutò in un sì, e Smith si recò alla fine per tre anni nella città, vivendo insieme agli abitanti locali più colpiti. A fargli compagnia Aileen Mioko, che poi prenderà il cognome Smith, che l’aveva avvicinato a New York per convincerlo a sostenere il Minamata Movement, unendosi nella denuncia attraverso il suo sguardo talentuoso e la diffusione planetaria dei suoi lavori. Cosa che effettivamente accadde, in anni che cambiarono la sua vita e segnarono probabilmente il suo reportage più famoso, che lo ha reso ancor più l’icona del giornalismo fotografico di un secolo così denso di avvenimenti. Erano tre decenni che la società Chisso devastava le acque della zona con gli scarti velenosi della sua fabbrica chimica, nell’immobilismo assoluto del governo e continuando a negare ogni addebito.

Depp entra totalmente nel personaggio, ne assume la postura insicura come il suo parlare per sussurri faticosi, nascosto da una barba incolta e dalla furia tutta interiore di un uomo dal passato opprimente quanto le sue ferite ancora non tutte rimarginate, che probabilmente non lo sarebbero mai state pienamente.

Minamata è il racconto di come Eugene Smith trovò a migliaia di chilometri da casa una comunità in cui sentirsi a casa, accolto e accettato, sapendo di poter contare su di loro e di poter fare molto in prima persona per aiutarli, mentre casa per lui era solo un eremo circondato da una realtà in cui non si riconosceva più. Nonostante il nome, Levitas, il regista non ci va leggero. Il suo è un racconto gonfio di gravitas formale, che confonde la solennità dell'indagine etica con quella del linguaggio cinematografico più adatto a portarla verso lo spettatore, quando i fatti da soli sarebbero stati sufficienti a coinvolgere e sconvolgere. Con il suo “complice” direttore della fotografia, Benoit Delhomme, ha ceduto al facile inseguimento dell’estetica delle foto di Smith, insistendo sullo sguardo della camera fotografica che si riverbera e si specchia in quella da presa, sulle sfocature e la macchina a spalla, saturando il peso formale di Minamata oltre il ragionevole, anche per le musiche meno ispirate del solito di Ryuichi Sakamoto. 

Una retorica messianica che appesantisce la parabola giapponese di Smith, così come gli ultimi minuti di film, che non rendono giustizia a una “missione” civile così importante, che riesce a emergere qua e là con decisione grazie soprattutto alle interpretazioni, specie quelle del cast giapponese.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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