Il capitale umano - la recensione del nuovo film di Paolo Virzì

01 gennaio 2014
3.5 di 5
4

Un graffiante e sarcastico noir, trasportato in Brianza dal lontano Connecticut

Il capitale umano - la recensione del nuovo film di Paolo Virzì

E' bello quando un regista come Paolo Virzì, che ha saputo come pochi raccontare l'anima del popolo, ti sorprende con un film con cui, con altrettanta sapienza e capacità affabulatoria, entra in un mondo che gli è probabilmente estraneo quanto lo è a noi. E soprattutto quando lo fa sulla scorta di un romanzo americano ambientato in Connecticut, strutturalmente complesso, che i suoi fidi sceneggiatori Francesco Piccolo e Francesco Bruni smontano e rimontano con pazienza da orologiai, trasformandolo nella narrazione dei fatti avvenuti in uno stesso arco di tempo secondo l'ottica di tre dei personaggi principali, operazione che ha lasciato grato e ammirato lo stesso autore del libro, Stephen Amidon, che aveva tentato inutilmente di adattarlo per il cinema.

Mantenendo inalterati i fatti essenziali, tutta la storia viene trasportata nella nostra opulenta Brianza, dove in ville alla Beverly Hills vivono i fortunati pochi che hanno quasi tutto e sempre più vicini a loro i molti aspiranti nuovi ricchi, sbruffoni e disposti a tutto pur di fare il salto “di qualità”. Nel codice a barre che è il logo del film Il capitale umano, in sintesi c'è tutto: l'espressione burocratica con cui le assicurazioni calcolano, in base a parametri di vario genere, il “giusto” prezzo di una vita, è l'unica concessione all'umanità di un capitale che in realtà non ha niente a che fare coi sentimenti e il valore delle persone, ma soltanto con se stesso, in un immenso valzer speculativo di cui pochi hanno la chiave di lettura e di cui quasi tutti restano vittime, volontarie o meno.

Dino Ossola è uno dei tanti, un uomo probabilmente buono e con le migliori intenzioni, che mette tutto quello che possiede sul piatto, all'insaputa della famiglia, per guadagnare dei soldi facili e sicuri che, quando finalmente riesce a entrare nel magico fondo di investimento del milionario Carlo Bernaschi, all'improvviso scompaiono. Per riavere il suo, con gli interessi che si aspettava, il baldanzoso e chiassoso padano ha un solo modo: il ricatto. E la possibilità di farlo gliela offre un fortuito, tragico incidente che vede indirettamente coinvolta la facoltosa famiglia. Di più della trama non raccontiamo, perché Il capitale umano non è solo, tra le righe, il ritratto di un paese in crisi, ma è anche un film di genere nel senso in cui lo era Chinatown di Polanski, dove alla base dell'intrigo privato c'erano il denaro e la speculazione, parti integranti del motore della società capitalistica i cui ingranaggi, di cui ignoriamo il funzionamento, ci stritolano senza che ne comprendiamo il modo e il motivo.

Quello che più colpisce è il cinismo all'interno delle famiglie al centro della storia: la figlia di Ossola è la leva per entrare nel mondo dei ricchi adoperata da un padre che non si fa scrupolo di venderne i sentimenti, la moglie di lui, incinta di due gemelli, sembra volutamente ignorarne il carattere e i maneggi, il ragazzino outsider viene sfruttato dallo zio, il figlio di papà viene schiacciato dalle ambizioni del genitore. Si tratta di persone che si amano, almeno nominalmente, e che non si rendono conto della condizione umana di chi hanno accanto.

Forse, al di là dell'avvincente costruzione e del perfetto gioco di squadra, non c'è molto di nuovo in quello che ci raccontano gli autori del Capitale umano, ma a loro va il merito di essere riusciti a farlo senza cadere in dinamiche da soap opera e in un facile moralismo, mantenendo tra le righe un umorismo amaro e sottile. Virzì e i suoi cosceneggiatori non assolvono né condannano i loro personaggi, ma lasciano che sia lo spettatore, come si faceva un tempo, a trarre le sue conclusioni. Splendidi complici gli attori, diretti come al solito dal regista con grande maestria; a noi sono parsi grandiosi Fabrizio Bentivoglio e Fabrizio Gifuni, in un cast senza una sola nota stonata e con una piccola ugola che si stacca dal coro: la debuttante Matilde Gioli, che potrebbe trovarsi tra qualche anno a ringraziare Paolo Virzì per averla introdotta in un mondo in cui sembra già essere perfettamente a suo agio.

 



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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