Il canone del male - recensione del film di Takashi Miike

09 novembre 2012
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Un ritorno a quell’iperviolenza carica di contenuti che ha decretato il grande successo internazionale di Miike e, seppur in maniera minore, a quello stile eccentrico che ne è stato a lungo un personalissimo marchio di fabbrica.

Il canone del male - recensione del film di Takashi Miike

L’adattamento della graphic novel di Yusuke Kishi “Aku No Kyoten”, nota anche col titolo inglese di “Lesson of the Evil”, segna l’ennesimo cambio di stile e toni per un Takashi Miike sempre più eclettico e prolifico.
Dopo i film sui samurai come 13 assassini e Ichimei e dopo film dichiaratamente per ragazzi e commerciali come Ninja Kids! o Ace Attorney, ecco che Il canone del male segna per Miike un ritorno a quell’iperviolenza carica di contenuti che ne ha decretato il grande successo internazionale e, seppur in maniera minore, a quello stile eccentrico che ne è stato a lungo un personalissimo marchio di fabbrica.

Nella storia di un professore di liceo apparentemente modello, ma che nasconde un lato psicotico che lo porterà a far eccidio di colleghi e studenti, Miike trova la strada per poter commentare, a suo modo, un mondo nel quale avvengono stragi tragiche e assurde come quelle di Columbine o di Utøya.
Se infatti nelle sue fasi costitutive e nella sua quasi asettica e raggelata descrizione di dinamiche scolastiche dalla normalità un po’ perversa (imbrogli, bullismi, pressioni sessuali, dinamiche amicali) Il canone del male sembra voler rielaborare l’Elephant di Van Sant, col procedere della storia e l’emergere della follia del protagonista non si può fare a meno di pensare che Miike abbia voluto fare di quest’ultimo un suo personalissimo Anders Behring Breivik.
Nella sua ossessione malata e perversamente legata ai culti norroni, nella sua implacabile decimazione, nel suo finale giocare con il concetto stesso di follia e con il suo ruolo.

Con una spietatezza che non lascia spazio a compiaciuti sadismi, Takashi Miike mette in scena una violenza estrema eppure glaciale, ragionando sul concetto di Male: sulla sua banalità, sulla sua complessità, sulla sua insensatezza.
Riflessioni, quelle messe in scena ne Il canone del male, che non brillano per originalità o profondità: ma sarebbe un errore condannare, e quindi prendere Miike troppo sul serio.
Un Miike che, aprendo il film con il motivo che sarà colonna sonora portante,  il “Die Moritat von Mackie Messer” scritto da Kurt Weil e Bertold Brecht per “L’opera da tre soldi”, alternato con la versione jazz cantata da Ella Fitzgerald, denuncia la sua intenzione di farne una sorta di perversa commedia satirica.

Assai meno “alimentare” di altri titoli, ma nemmeno completamente libero fino in fondo, Il canone del male si saluta comunque volentieri per il ritorno di Miike ad un cinema che ha il coraggio di provare a riappropriarsi non della violenza ma di uno stile, specie prima della carneficina finale, ostico ed ellittico, che sembra tornare a guardare nella direzione della provocazione spiazzante e metafisica delle sue opere migliori.







  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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