If I Had Legs I'd Kick You, la recensione: i traumi della maternità secondo Mary Bronstein

17 febbraio 2025
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Una bravissima Rose Byrne, premiata come miglior attrice alla Berlinale e anche produttrice, è una delle poche cose positive di un film formalmente insopportabile (con tutti i vezzi e i "lo famo strano" della A24) e parossistico. La recensione di If I Had Legs I'd Kick You di Federico Gironi.

If I Had Legs I'd Kick You, la recensione: i traumi della maternità secondo Mary Bronstein

Una madre sull’orlo di una crisi di nervi. C’è poco da ridere, però. Proprio niente. Mary Bronstein di ridere non ha proprio voglia, se nel suo film può emergere del comico è sempre un comico tragicissimo, oltre che paradossale. Al limite, a volte ce n’è d’involontario. Mary Bronstein vuole che stiate male, vuole stressarvi, e al più vuole - vorrebbe - farvi rimanere a bocca aperta per quanto è brava, per quanto è arguta, per quanto se ne freghi, lei delle regole narrative e estetiche del cinema tradizionale. Sta facendo il film con A24, lei, e lo fa strano quanto le pare.

Apre If I Had Legs I’d Kick You su un primissimissimo piano della protagonista Rose Byrne, che nel film crede ciecamente, tanto da dare tutta sé stessa - è brava, molto va detto - e fare pure la produttrice. Primissimo piano, dettaglio insistito sugli occhi, sul volto, sulla bocca. E via così. Tre quarti del film hanno sullo schermo il volto gigantesco di questa protagonista, mamma stressatissima, col marito via (lo sentiamo solo per telefono), una figlia con una qualche malattia o disturbo dell’alimentazione (non la vediamo mai, la sentiamo e basta, al limite vediamo il macchinario che la alimenta la notte).
La bambina è in cura in un centro, la dottoressa ha dei dubbi sul comportamento e la tenuta psicologica della mamma, poi quando le due arrivano a casa, crolla il soffitto della camera da letto, lasciando un buco enorme sul soffitto. Un buco che è - non poteva essere altrimenti - simbolo di tante cose: vagina, certo, ma anche soglia verso chissà quale dimensione, e pure versione estesa del buco che la bambina ha nella pancia, nel quale c’è la sonda che la pompa dentro il nutrimento. E - non poteva essere altrimenti - il buco assume via via connotazioni quasi organiche.

A Cronenberg, povero, saranno fischiate le orecchie. Perché di If I Had Legs I’d Kick You Bronstein - regista e sceneggiatrice, e pure con un ruolo, quello della dottoressa che rimprovera sempre la protagonista - vuole fare un (body) horror, a tema traumi e fatiche della maternità, raccontato con una frenesia che fa sembrare Diamanti grezzi un film di Bèla Tarr. Vuole fare la versione ubercool, di genere e cupa di Nightbitch, di cui If I Had Legs I’d Kick You è il film gemello diverso e perverso.
Pretenzioso e fastidioso (disturbante, direbbero quelli che lo sostengono), If I Had Legs I’d Kick You ha fatto scrivere a un critico americano, Brian Tallerico, uno dei pochissimi che non ne ha parlato come di un capolavoro, “È un film che a tratti mi piace molto, ma devo ammettere di aver trovato la sua miseria aggressiva estenuante”. La sposo appieno. Magari a tratti, a me, non è piaciuto così tanto, ma estenuato ne sono stato eccome (certo, sono un tipico maschio insensibile ai problemi della maternità, che vi aspettavate?).

C’è da dire però che quello di Mary Bronstein è un film perfettamente in linea con lo spirito del tempo: non solo dal punto di vista femminista, ma anche perché è un film in cui tutto - mica solo la maternità - è trauma, tutto è iperpsicologizzato. Ho infatti dimenticato di dire che la protagonista - nevrotica, instabile, mezza alcolizzata - è una psicoterapista. I suoi pazienti non stanno granché peggio di lei, che pure è in terapia da un collega che un po’ la ama, un po’ mal la sopporta (lui è Conan O’Brian). Tutto è trauma, tutto è da analizzare, tutti i personaggi (femminili) sono solo vittime, degli altri o di sé stesse.
La percezione - di sé, degli altri, del mondo, è l’unica cosa che conta, in un processo costante di sparizione di ciò che è reale.

È anche per questo che If I Had Legs I’d Kick You gioca costantemente sull’ambiguità di quel che vediamo. Ma che sia realtà, percezione, sogno o allucinazione, il risultato non cambia. Purtroppo. Non è che i temi siano sbagliati: è la parossistica e narcisistica esasperazione del tutto, il problema. Quella, e il linguaggio: che condannano lo spettatore a un’adesione tutta ideologica, o a un rifiuto di fronte alla valanga inarrestabile della sua artificiosità. Perché la questione non è ovviamente solo da che parte si stia rispetto a un tema: è, come dice qualcuno, come si articola il proprio starci.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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