Iddu, l'ultimo padrino: la recensione del film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

06 settembre 2024
2.5 di 5

Presentato in concorso al Festival di Venezia, Iddu è il film della coppia Grassadonia e Piazza che affronta una storia poco nota di un padrino per certi versi sottovalutato. Fra ridicolo e risate grottesche, il rapporto fra un mafioso e un piccolo politico. La recensione di Iddu di Mauro Donzelli.

Iddu, l'ultimo padrino: la recensione del film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Pizzini a confronto, fra uomini di potere e uomini d’onore, sempre con quel senso di ricolo che non guasta. La mafia e le sue declinazioni fra il grottesco e il puerile, sempre senza che questa voglia dire sminuirne la portata criminale, sono al centro della produzione cinematografica di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Il loro lavoro a quattro mani li ha portati, dopo l’esordio con Salvo, apprezzato alla Semaine di Cannes, alla rievocazione con sospesa originalità di Sicilian Ghost Story. Tornano a disinnescare la linearità del racconto mafioso in Iddu, anche se questa volta si muovono in territori più convenzionali, con il racconto di un momento poco conosciuto della latitanza di Matteo Massina Denaro. Uno sfregio durato quasi trent’anni, diventato una sintesi fattuale delle complicità e dei sospetti nell’azione delle istituzioni e nella capacità del fenomeno mafioso di incidere ancora in profondità sul territorio.

L’ossessione della scrittura dei proverbiali pizzini ha fatto emergere la corrispondenza di Messina Denaro con un piccolo e grigio politico locale. Siamo nei primi anni Duemila e le fortune di quest’ultimo sono in caduta libera, dopo alcuni anni in prigione e un dilemma morale che gli viene servito dai servizi segreti: aiuto nella cattura dell’introvabile in cambio di un ritorno in quei giochi ambigui fra politica, piccolo malaffare e rapporti con i clan da cui ormai è tagliato fuori. Iddu inscena un gioco di maschere fra le due monadi di questo confronto a distanza, amplificando ogni  possibile equivoco e mettendo alla prova la piccola furbizia del politico, Catello, alle prese con un uomo ossessionato dalla segretezza e dalla propria solitaria prigionia.

È la figura di Messina Denaro ad emergere in maniera cristallina, come uno squalo si aggira in moto perpetuo per contrastare la sua prigionia autoimposta, ma senza trovare mai la soddisfazione di una scia di sangue su cui scatenare la sua rabbia e la sua sete di potere. È un tiranno impossibilitato a nutrirsi della paura negli occhi dei sottoposti, dei destinatari del suo status di ultimo padrino. Per cui questo dialogo a distanza con la mediocrità di Catello ne alimenta ancora di più la frustrazione, scatenata nei confronti dei piccoli predatori del suo clan che circondano ogni tanto il grande boss, oltre al desiderio di vendetta.

Due maschere da commedia dell’arte che si confrontano in una tragicommedia con accenni grotteschi in cui si affastellano personaggi di contorno, subalterni e piccola manovalanza, istituzioni più o meno segrete e parenti. Un universo fin troppo popolato che tende a disperdere la portata del confronto a distanza, allentando ritmo e toni di una storia piuttosto ordinaria e spenta, specie quando non sono in vista i due catalizzatori di (sano) ridicolo e di tensione simbolica delle mediocrità nazionali.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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