I morti non muoiono: la recensione della zombie comedy di Jim Jarmusch che ha aperto il Festival di Cannes 2019
Commedia poi sì, ma fino a un certo punto.
Commedia sì, va bene, ma fino a un certo punto. E horror puro no, davvero proprio no. E allora cos’è I morti non muoiono, oltre a essere il nuovo film di Jim Jarmusch?
Risposta lapalissiana: è il nuovo film di Jim Jarmusch, che come sempre usa il cinema, e i generi, e gli attori, a modo suo per raccontare le cose del mondo in cui viviamo e che gli stanno a cuore. Nel cuore.
Come nel cuore dell’America (sì, trumpiana, ma in fondo chissene importa) è Centerville, “un posto davvero carino”, come recitano le insegne stradali, 738 abitanti e tutto quello che fa la Vera America: la stazione di polizia, il diner, il motel, la stazione di benzina (che qui vende anche memorabilia horror), il riformatorio, il country. Il country della canzone omonima di Sturgill Simpson che fa da tema al film.
E per motivi che vengono dichiarati subito - il fracking polare che ha scombussolato l’asse di rotazione della Terra, checché ne dicano le autorità - è arrivata l’apocalisse. Zombie, ovviamente.
Sono rimasti e rimarranno forse delusi coloro che si aspettavano da I morti non muoiono nuove riflessioni romeriane. O perfino chi poteva pensare a un nuovo Shaun of the Dead. Ma nessuna delle tue arie è nelle corde di Jarmusch, che la sua apocalisse zombie la racconta con lo stile stralunato, l’umorismo surreale, e l’andamento lento ma solo in apparenza svagato che gli è proprio.
Perché Jarmusch è tutto tranne che svagato. Al contrario, fa attenzione a tutto (anche ai dettagli, che vanno apprezzati, come dice RZA) e a tutti. Soprattutto al mondo in cui viviamo.
Degli zombie importa poco a Jarmusch. A dispetto di certe narrazioni a latere dell’Eremita di Tom Waits, gli importa pochissimo anche della metafora del consumismo, del ricadere dei morti viventi nelle abitudini di consumo del passato, che prende anzi in giro platealmente, parlando di caffè, dolcetti, wifi, xanax, ferramenta varie e chitarre.
Quello che gli importa è l’Apocalisse, che poi è quella che sembrerebbe pensare noi si stia già vivendo.
Alla fine nessuno si sorprende più di tanto a Centerville, del fatto che arrivino gli zombie. Anzi, c’è chi - come il poliziotto pacato e ultra-razionale di Adam Driver - è la prima cosa cui pensa quando cose strane iniziano ad accadere. Ed è sempre lui a dire, fin dall’inizio, che “This is gonna end badly”, che le cose finiranno male.
Perché dentro quest’apocalisse già ci siamo, tutti noi, serve solo la scintilla che faccia divampare l’incendio: l’unica cosa da fare è dare il meglio di sé fino alla fine, ma tanto l’Apocalisse non lascerà scampo.
A meno di non essere dei drop-out, magari giovani irregolari che - chissà perché e percome - sanno dove nascondersi. Ma anche qui, le cose non sono certe.
Centerville, allora, è l’America di Trump, certo, ma è anche e soprattutto il mondo dentro il quale tutti noi viviamo. Quel mondo in cui tutti ripetono le stesse cose di continuo, formule vuote, frasi fatte, che non fanno fare un singolo passo in avanti nella comprensione delle cose e nella eventuale reazione. Il mondo dove si canta sempre la stessa canzone, che non si vuole ascoltare davvero.
Il mondo del quale, se siamo persone davvero razionali, il copione ci è ben noto, fino al finale, con al massimo qualche bizzarra sopresa quando si incontrano soggetti sinceramente alieni al sistema in cui siamo calati.
Zombie sì, allora, ma come metafora e come pare a Jarmusch. Commedia sì, certo, perché si ride (Murray e Driver sono una coppia meravigliosa, e Tilda Swinton è come sempre sublime), ma fino a un certo punto.
E alla fine I morti non muoiono non è solo spiazzante, ma anche un po’ angosciante. Di quell’angoscia serena e disincantata di cui è capace il suo regista. Un regista di cui, in questo mondo così scemo, forse non meritiamo né l’intelligenza né il cinema.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival