I Molti Santi del New Jersey, la recensione: un po' fan service, un po' gangster movie, un po' serie, un po' cinema
Anime diverse cercano convivenza in questa origin story che racconta non tanto del giovane Tony Soprano (protagonista quasi suo malgrado) quanto nel suo mentore, lo zio Dickie Montisanti, citato a più riprese dal Tony adulto nella serie di David Chase che porta il suo cognome.
La macchina da presa si muove tra le lapidi di un cimitero. Ogni lapide, una voce. La terza lapide, la terza voce, sono quelle di Christopher Moltisanti.
E la voce di Christopher prende a raccontare - e noi a vedere - di suo padre, Dickie Montisanti (Alessandro Nivola), che, nel 1967 ancora non era diventato suo padre, e di un bambino cicciottello di nome Anthony, suo zio. Anthony detto Tony. Soprano. "Mi ha ucciso strangolandomi", dice Christopher.
Ecco, questa è la prima anima, quella da fan service, di I Molti Santi del New Jersey, prequel di una delle serie che hanno cambiato la storia e il volto della serialità televisiva, trasformando quelli che un tempo noialtri anziani chiamavamo "telefilm" nel fenomeno mondiale che tutti conosciamo.
Proseguendo il suo racconto, però, la voce narrante di Christopher, prima di svanire in fretta per ricomparire solo nei secondi finali del film, introduce anche un altro personaggio: Hollywood Dick Montisanti, padre di Dickie, che ha il volto di Ray Liotta.
Con l'apparizione di Liotta, e col racconto della vita quotidiana e malavitosa dei Montisanti e dei Soprano, il film di Alan Taylor (nove episodi dei Soprano in curriculum, oltre a un cinecomic Marvel e il quinto Terminator) mostra l'altra sua anima: quella di un film ambiziosamente scorsesiano, dove tutto - i personaggi, il gergo, i salti temporali, le dinamiche e perfino gli arredi - sembra studiato ad arte, e con sprezzo del pericolo, per evocare un fantasma ingombrantissimo come quello di Quei bravi ragazzi, che già era stato modello primario per la serie di David Chase.
Pleonastico, sicuramente, è dire che tra I Molti Santi del New Jersey e il capolavoro di Scorsese passano abissi lovecraftiani, ma a ben vedere gli sforzi di Taylor (e di David Chase e Lawrence Konner, sceneggiatori) sono sinceri e pure apprezzabili. Gli sforzi messi nel tentativo di fare del suo film qualcosa in grado di regalare piccoli momenti di trascurabile felicità ai tanti fan dei Soprano, con dettagli e riferimenti, ma al tempo stesso di realizzare un gangster movie fruibile anche da chi, con quella serie, ha poca o scarsa dimestichezza.
Eppure, I Molti Santi del New Jersey, che non ha i tempi narrativi utili a scavare nelle psicologie della serie, né nelle sue immagini compie il balzo verso il grande cinema, rimane a metà del guado, un po' indeciso su quale strada prendere. Incapace di utilizzare il quadro storico (le rivolte nere di Newark del 1967, la nascita della consapevolezza nera anche nel mondo del crimine, che si contrappone agli italoamericani) in maniera utile a esser specchio del presente, e un po' insistito nel voler rifare nel film - che è pure anche una origin story, ma insomma - quello che è era al centro della serie: il contrasto tra riti e violenze della mafia, e le fragilità psicologiche che si tramutano ora in eccessi d'ira, ora in fragilità emotive.
Nel film Dickie, come il suo pupillo Tony nella serie, si troverà a fare i conti con sé stesso, confrontandosi con una figura simil-psicanalitica che lo mette faccia a faccia col suo rimosso; noi rimaniamo faccia a faccia con Michael Gandolfini, figlio di James, che ha lo sguardo e l'imbarazzo di suo padre, in un film che lo rende co-protagonista quasi suo malgrado.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival