Hotel Transylvania - la recensione del film d'animazione
La Sony Pictures Animation racconta la difficile paternità di Dracula.
Legatissimo alla giovane (118 anni) figlia Mavis, Dracula ha promesso alla defunta moglie di proteggerla dalla minaccia dei vivi.
Per farlo ha creato un micromondo: l'Hotel Transylvania, luogo in cui tutti i mostri possano rilassarsi a piacimento, lontani dalla civiltà. Il naturale desiderio di evasione di Mavis sarà però potenziato dall'arrivo dell'allegro turista umano Jonathan, del quale s'innamora, costringendo il babbo a capire come diventare genitore.
Immaginate di essere un artista e un regista di talento come Genndy Tartakovsky, famoso per il suo stile fortemente bidimensionale a mano libera per cartoon televisivi: Il laboratorio di Dexter, Samurai Jack e Star Wars : Clone Wars, oltre ad alcune regie su Le superchicche.
Immaginate ora che vi si offra la regia di un film dalla lunga e sofferta gestazione, totalmente in computer grafica. Potreste rifiutare, aspettando la difficile chance che a Hollywood vi finanzino in tempi brevi un lungo in 2D, oppure potreste cogliere la grande occasione cercando di piegare in qualche modo la CGI al vostro stile.
Tartakovsky, emigrante dall'URSS negli Stati Uniti all'età di sette anni nel lontano 1977, ha scelto la seconda ipotesi, sperando nella flessibilità dei vertici Sony Pictures Animation. Ha fatto bene: film come Piovono polpette e Pirati! Briganti da strapazzo (realizzato dalla Aardman) hanno mostrato come la casa sia aperta a visioni distintive. A prescindere da interventi nel design dalle proporzioni folli dei protagonisti, la mano di Tartakovsky è quasi onnipresente nel taglio delle animazioni: già con la saga di Madagascar la concorrente DreamWorks si è impegnata a riscoprire i movimenti a scatti e le pose estreme, nei visi e nelle anatomie, ma Genndy è più elegante. Mandibole, orbite, gambe e braccia vengono piegate rispettando sia la necessità dello humour buffonesco, sia la composizione dell'inquadratura, compiacendosi per il modo in cui le silhouette di ogni personaggio richiamano, riempiono o completano i fondali e le linee di fuga. Non a caso lo stile dà il meglio quando non ci sono movimenti di macchina e lo spettatore può ammirare il quadro e i personaggi che si muovono al suo interno, ricomponendo via via la lettura dell'immagine, alla ricerca della risata. Tartakovsky si rifà all'anti-Disney per eccellenza, Tex Avery, che disse: "In un cartoon puoi fare qualsiasi cosa".
Qui forse però c'è l'intoppo. Il funambolismo di Avery era al servizio di una disgregazione totale, anche del plot; non a caso non ha mai firmato un lungometraggio in vita sua: troppo rigore in un plot articolato. Genndy se ne preoccupa poco, accettando una semplice commedia adolescenziale con gag allegrotte, la cui leggerezza ha lasciato perplessi molti critici. Il pubblico americano si è però divertito molto: ci piace pensare che lo stile, anche da solo, paghi.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"