Hopper e il tempio perduto, la recensione del divertente cartoon belga
Avventura, umorismo e un pizzico di sarcasmo: non sarà un capolavoro, ma Hopper e il tempio perduto porta a casa il risultato di un divertimento sincero e professionale. La nostra recensione.
Figlio adottivo del re Peter, avventuriero di professione, il giovane Hopper vorrebbe seguire le orme paterne, ma ha un problema: è un bizzarro incrocio di lepre e pollo, deriso da tutti. Per ribaltare l'opinione pubblica sulla sua stranezza, decide allora di ritrovare uno scettro misterioso che un tempo sfuggì sia a suo padre sia a suo zio Lapin, un parente infido che aspirererebbe a regnare al posto del fratello. Hopper s'imbarca così sponte sua in una grande avventura, in compagnia del consigliere Abe (una tartaruga) e di Meg (una puzzola), che conosce la sopravvivenza e le arti marziali. Ma naturalmente il tesoro non è più importante della fiducia in se stessi...
Pur basato sulle graphic novel di Chris Grine della serie Chickenhare, partite una quindicina d'anni or sono e concluse nel 2009, Hopper e il tempio perduto ha tutte le caratteristiche positive delle produzioni dello studio belga nWave di Ben Stassen, qui coregista con Benjamin Mousquet (nei lungometraggi precedenti layout artist). C'è un'alchimia precisa già apprezzata in Rex - Un cucciolo a palazzo, Il castello magico, Bigfoot Junior o Le avventure di Sammy: nessuna particolare originalità nell'impianto della storia o nelle caratterizzazioni dei personaggi, ma una cura certosina nel bilanciamento di dialoghi, battute, ruoli e ritmo, con una disinvoltura che compensa l'assenza di particolari folgorazioni.
Si perde la dimensione grafica molto stilizzata del materiale d'origine, in favore di una CGI fotorealistica piuttosto generica, però animazioni e modelli dei personaggi sono curati e veicolano correttamente tutte le situazioni, con un dinamismo adeguato della macchina da presa. Ancora, il paragone non è con Pixar e Disney, è con le tante produzioni animate europee a basso budget, sconfitte nel confronto. È proprio la via di mezzo alla quale la nWave Pictures ci ha abituati da una quindicina d'anni, un marchio di fabbrica che solo ogni tanto tradisce qualche cautissimo scatto di ambizione che lascia a bocca aperta, a maggior ragione perché in una produzione del genere non lo si aspetta: in Hopper e il tempio perduto per esempio tale scatto è rappresentato dalla tribù dei maiali nella quale i nostri eroi s'imbattono. Il loro surreale modo di muoversi, come blocchi a incastro, commentato dalla musica ironica della band Puggy, è sorprendentemente ricercato e spassoso.
I messaggi e i temi del racconto poi, per quanto stravisti e straproposti, hanno sfumature da gustare: è bella l'idea che Hopper usi il look di Indiana Jones (citato anche nel prologo) finché non raggiunge una sua identità indipendente dai modelli altrui. Una bella lezione per un'intera generazione di bambini, pubblico di riferimento del film, spesso seppellita dalle nostalgie di papà e mamma, comunque soddisfatte da un incontro con la puzzola Meg che riecheggia Han Solo nel primigenio Guerre stellari. Su tutto, quando magari la trama comincia a timbrare il cartellino, svettano le considerazioni sarcastiche e perplesse della tartaruga Abe: la sua concretezza da impiegato assennato, nel contesto della logica epica della vicenda, è un'interferenza che in più di un caso strappa sincere risate.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"