Holy Spider, la recensione del film di Ali Abbasi presentato in concorso al Festival di Cannes

22 maggio 2022
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Il regista dell'acclamato Border in corsa per la Palma d'oro con un thriller ispirato a fatti realmente accaduti, che parla tanto della caccia a un serial killer di prostitute quanto del maschilismo violento e prevaricatore nella cultura iraniana.

Holy Spider, la recensione del film di Ali Abbasi presentato in concorso al Festival di Cannes

Mashaad è una grande città iraniana, luogo di pellegrinaggio, perché luogo di sepoltura di un martire dell'Islam, l'Imam Reza.
A Mashaad un serial killer soprannominato dalla stampa "il ragno" sta uccidendo prostitute che abborda e poi strangola, rivendicando poi i suoi omicidi telefonando alla stampa e dichiarando che la sua è una jihad, una guerra santa contro il vizio e la caduta della morale.
A Mashaad arriva, da Teheran, una giornalista che vuole scrivere un reporage sul caso, e scovare l'identità di un killer che, sospetta lei, polizia e autorità non hanno molta intenzione di arrestare.
Si capisce dalle prime scene di Holy Spider, dal primo omicidio del killer che vediamo e da come Ali Abbasi riprenda le luci notturne di Mashaad, nemmeno fosse la Los Angeles di Michael Mann in Collateral, che questo è un film che flirta vicinissimo col genere codificato in chiave hollywoodiana. C'è pure un po' di Zodiac, dopo.
Alla fine, gli ingredienti ci sono tutti: la giornalista investigativa, la polizia un po' corrotta, la tensione, la caccia a un killer di cui, noi che guardiamo, conosciamo benissimo l'identità.
E però si capisce subito, anche, che Holy Spider non è solo e soltanto un film di genere, solo la storia di una caccia al killer delle prostitute di Mashaad. Situazioni, toni, battute: tutto è messo lì in bella mostra per raccontare anche altro, quell'altro che ancora una volta è "il grande tema" che oramai a certo cinema pare essere indispensabile, perché raccontare storie e sentimenti non basta più. Pare.

Il tema, qui, è quello del maschilismo, arrogante e violento, insito nella cultura iraniana, cultura antropologica, politica e religiosa.
Perché tutto l'atto finale del film di Abbasi, quello che arriva dopo che il killer viene finalmente arrestato, grazie ovviamente al fondamentale contributo dell'intrepida giornalista, riguarda le reazioni popolari a questo arresto, che non sono quelle che uno, uno che non vive lì, potrebbe immaginare, e i dubbi e le paure della giornalista riguardo al fatto che giustizia venga davvero fatta.

Abbasi, che è iraniano di nascita ma è naturalizzato danese, ha un doppio passaporto, e uno sguardo che è chiaramente globale e globalizzato, e la commistione tra stile hollywoodiano e dinamiche iraniane ce l'ha nel sangue. E il genere lo fa funzionare.
L'impressione, tuttavia, è che questo film, tutto nato e pensato dentro l'Occidente, e che dentro l'Occidente vivrà e prospererà, sia un po' troppo didascalico e vagamente facile riguardo realtà che mira a raccontare, sulla questione del tema, e che le ambiguità etiche e morali che vuole ritrarre, le zone d'ombra del pensiero e della democrazia, non generino mai davvero una tensione sufficiente a far chiedere allo spettatore quale esito possa avere la storia, né tantomento a generare riflessioni complesse.
A dispetto di un colpo di coda finale che, più narrativamente e moralmente che per ragioni stilistiche, riporta tutto in territori che più hollywoodiani non si potrebbe, ma che i nodi, comunque, non li scioglie mai del tutto, con una certa malcelata furbizia.
E che il tutto, come recita un cartello finale, sia ispirato a fatti realmente accaduti, non serve a elevare il risultato.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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