Hokage - Ombra di Fuoco, la recensione: l'umanità al bivio di Shinya Tsukamoto
A due anni dalla prima mondiale avvenuta al Festival di Venezia 2023 (sezione Orizzonti), arriva al cinema il più recente film di questo grandissimo regista giapponese. La recensione di Hokage - Ombra di fuoco di Federico Gironi.
“Dato che il mondo si sta allontanando dalla pace, mi sono sentito in dovere di girare questo film, come se fosse una preghiera”, diceva Shinya Tsukamoto del suo film, ai tempi della sua presentazione al Festival di Venezia, nel 2023. Da allora, il mondo dalla pace si è allontanato ancora di più, e di preghiere ne abbiamo sempre più bisogno. Anche senza questa dichiarazione, comunque, le intenzioni di Hokage erano sufficientemente chiare. Anzi, scure. Scurissime.
Non importa il dove, in Giappone, importa il quando, che è chiaramente subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Dopo lo scoppio della bomba. Non c’è riferimento chiaro e diretto all’atomica, nel film di Tsukamoto, ma insomma: non è difficile immaginarsela. Non è difficile immaginare che l’"ombra di fuoco" cui il giapponese fa riferimento possa essere quella, celebre, lasciata sui gradini della Banca Sumitomo di Hiroshima da una vittima rimasta senza nome.
Quell’ombra, che Tsukamoto non cita mai direttamente, è chiaramente un simbolo astratto, il segno dell’ombra lasciata dalla guerra nel cuore di chiunque l’abbia vissuta. E ombre, sagome oscure di quello che erano stati e che non saranno mai più, sono anche i protagonisti di questo film: una giovane donna costretta alla prostituzione, un ex soldato che continua a rivivere gli orrori del passato, un bambino orfano. Insieme, incontratisi per caso, cercano di mettere su una sorta di sbilenca e precaria famiglia, ma il peso di ciò che è stato fa crollare tutto.
L’espediente di mettere un bambino, vittima innocente e insieme simbolo di un futuro che appare impossibile, al centro delle vicende del film è chiaramente neorealista, anche la declinazione non segue le premesse, e la superfice delle immagini di Tsukamoto dice esattamente il contrario, e racconta di un formalismo sobrio e elegante anche in quel che di lancinante sta mostrando. Le ferite dell’animo sono spesso invisibili, e allora Tsukamoto mostra la rovina nelle cose e nelle case: nella casa-utero della giovane donna, dove quell’embrione di nucleo familiare è rinchiuso, fino a quando non viene abortito e espulso. È allora, uscito da quel teatro cupo e decadente, che il bambino s’incammina nel mondo, al fianco di un altro misterioso personaggio, che anche lui si rivelerà segnato dai traumi e dalla violenza.
Una volta solo, una volta libero, una volta slegato da qualsiasi contatto con un passato che non può riguardarlo, il bambino potrà forse sperare in qualche apertura luminosa, in una ciotola di zuppa, in una banconota accartocciata, perdendosi tra la folla verso chissà quale destino.
Tsukamoto è chiaro e diretto, fin quasi didascalico in un racconto silenzioso e dolente, nel quale si aprono sporadici guizzi di una visionarietà potente e perturbante che altrove si placa e si addomestica per esigenza di amara poesia e di necessaria compassione: i resti di una città rasa al suolo e incenerita, che si rivelano nella loro realtà di modellino in scala; la follia di un uomo dietro delle sbarre, ombre di quelli che furono esseri umani in un vicolo che si confondono e si perdono nel buio del reale e dell’esistenza.
Ecco, l’umanità al bivio: tra vita e morte, tra buio e luce, annientamento e speranza. Tutto qui. E forse non è poco.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival