Radiance: la recensione del film di Naomi Kawase presentato in concorso al Festival di Cannes 2017
Prima o poi qualcuno dovrà svelare il segreto dell'amore di Cannes per il cinema della regista giapponese.
Ci sono cose che davvero non si spiegano. Misteri sui quali nemmeno Roberto Giacobbo potrebbe riuscire a gettare luce.
Uno di questi è la testarda ossessione del Festival di Cannes per il cinema di Naomi Kawase, una che qualsiasi storia racconta, la racconta con uno stile tra il pensoso e il lezioso, e ti pare di sentire i suoi sospiri qui e lì, tra un abuso di pianoforte e una frase fatta piazzata bene, per accarezzare l'animo delicato del suo pubblico di riferimento.
Robe tipo quelle che si dicono in Radiance: "Un film è una cosa che ti permette di entrare in connessione con la vita degli altri", o "Un fotografo è come un cacciatore, e il tempo è la sua preda."
Al centro della storia, una ragazza (bella) che fa le audio-descrizioni per i film, quelle che servono a descrivere alle persone cieche quello che sta accadendo sullo schermo tra un dialogo e l'altro.
Lei, che non si è mai rassegnata alla scomparsa del padre e ha una madre malata di Alzheimer in campagna, incontra nel corso delle proiezioni di prova per valutare e affinare il suo lavoro un lui, un fotografo che ha perso la vista quasi del tutto, che ovviamente è ombroso e tormentato, che le fa le critiche più feroci, ma che finirà con l'aprirsi e innamorarsi.
Naomi Kawase parla anche di tante cose belle e importanti, per carità.
Parla dell'importanza del guardare e del guardarsi; parla dell'inseguire l'irraggiungibile (come il sole che tramonta) e di imparare ad accettare i limiti e le privazioni che la vita impone; parla della capacità di usare la giusta misura e le giuste parole nelle relazioni e nelle comunicazioni con gli altri.
Ecco, quella misura giusta e quelle parole (e immagini) giuste, che lei non trova mai.
Bastano pochi minuti e subito, in Radiance, la retorica supera i livelli di guardia, tra gli ostentati primissimi piani sugli occhi - spesso velati di lacrime e dolore - del protagonisti, controluce sfocati, musichette lacrimevoli e sentimentalismo smielato e ostentato.
Un film che è un romanzo rosa, di quelli senza erotismo che per carità: ma un romanzo rosa che, invece di accettare la sua natura popolare, si finge impegnato e "profondo".
Qualcuno lo chiama midcult.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival