Heretic, la recensione: Hugh Grant, il Monopoli, la teologia
Come un Knock Knock al contrario, come un Gli insospettabili a tema teologico. Con uno Hugh Grant inedito e fenomenale. La recensione di Heretic di Federico Gironi.
Si inizia quasi come in Knock, Knock di Eli Roth, con due ragazze che bussano alla porta di un uomo ed entrano in casa sua. Solo che poi le dinamiche - nonostante, curiosamente, anche qui nel dialogo iniziale viene fuori un accenno alla poligamia - sono ribaltate: perché le ragazze non sono lì per sedurre, torturare e rovinare la vita al Keanu Reeves di turno, ma due giovani missionarie mormone (interpretate da Sophie Thatcher e Chloe East) che sperano di poter attirare nella loro chiesa il signor Reed di Hugh Grant, che aveva manifestato chissà quando un certo interesse nell’incontro, finendo col diventare loro le vittime di questa situazione.
All’inizio, e per una buona metà, Heretic sembra poi trasformarsi in una sorta di Gli insospettabili in chiave teologica. Perché sì, si capisce subito che il signor Reed mente (ma poi davvero?) sulla presenza in casa di sua moglie, e che nemmeno troppo nascosti dietro quei modi un po’ goffi e curiosi si cela qualcosa di inquietante e pericoloso, ma in qualche modo a lungo Scott Beck e Bryan Woods - sceneggiatori e registi del film - sembrano voler insinuare che la minaccia di qualcosa di davvero spaventoso e orrorifico possa servire solo a rendere più teso il confronto psicologico e teologico che Reed ingaggia con le sue niente affatto casuali visitatrici. E invece.
Questa prima parte di Heretic, quella in cui emerge in maniera progressiva e inesorabile la follia del personaggio di Grant, ma che allo stesso tempo si basa su una serie di tirate sulla religione e la fede, le loro fallacie e ambiguità, che vengono inizialmente subite e poi contestate dalle giovani vittime del sermone (soprattutto dal personaggio di una brava Sophie Thatcher), è in fin dei conti quella più interessante. Ben pensata, ben scritta, ben realizzata, sempre capace di tenere in precario equilibrio la tensione con l’umorismo, la paura con l’alleggerimento (incredibile in questo senso quella parentesi in cui Grant si lancia in una citazione e perfino in una imitazione dell’odiato starwarsiano Jar Jar Binks) e di ingaggiare anche lo spettatore nelle questioni che affronta.
Arriva poi il momento in cui il Reed di Grant, terminata la sua lezioncina di storia delle religioni con tanto di paragone tra le tre grandi fedi monoteiste con varie versioni del Monopoli, mette le due giovani di fronte a un bivio, alla scelta tra il credere e l’essere scettici. Una scelta che, nel film, sappiamo benissimo essere una non-scelta, perché il destino delle ragazze è in qualche modo segnato, ed è un destino che conduce a un livello più profondo e al tempo stesso esplicito del sadico gioco psicologico condotto da Grant. Quel che succede da quel momento in poi è bene non rivelarlo, né tantomeno accennarlo, ma basti qui dire che è al tempo stesso prevedibile per alcuni versi e sorprendente per altri, e che sebbene tutto diventi più viscerale che non cerebrale, il gioco teorico - se così vogliamo chiamarlo - alla base del film, l’idea del personaggio di Grant di mostrare alle sue vittime quale sia “l’unica Vera religione”, rimane vivo e valido fino alla fine.
Per essere un film A24, Heretic limita di molto il fighettismo, e non fa solo finta di non trattare da scemo il suo spettatore come troppo cinema contemporaneo. È un film che crede nella sua teoria e nel suo dibattito, ma che al tempo stesso non ha disdegno per il genere inteso nella sua forma più pura, trovando il modo di fondere - per così dire - l’alto e il basso. Di solleticare il cervello tanto quanto la pancia, per parafrasare Il Principe cerca moglie.
Nonostante qualche inevitabile rigidità del terzo atto, Beck e Woods riescono nel loro scopo, e dimostrano che le idee - di scrittura prima di tutto, ma anche di una messa in scena che tutto sommato è compresa in una unica location - sono quello che conta davvero.
Quello, e un Hugh Grant fenomenale, che intinge nella psicopatia e nel luciferino la sua immagine tradizionale, e che si conferma attore e persona di grande intelligenza e di tagliente umorismo. Un Grant che avrebbe meritato tutti i premi del mondo e che, perdonate l’espressione trita e banale, davvero vale da solo il prezzo del biglietto.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival