Hellhole: recensione del film horror in streaming su Netflix
Diretto dal Bartosz M. Kowalski che aveva già firmato il dittico slasher di Non dormire nel bosco stanotte, arriva dalla Polonia un gran bell'horror dalle atmosfere cupe e malsane, capace anche di ironia e di un finale vagamente lovecraftiano. Recensione di Federico Gironi.
Si inizia nel 1957, con un prologo piuttosto tradizionale: un prete fa il suo ingresso trafelato in una chiesa, portando con sé il fagotto di un neonato, un neonato che vuole uccidere perché, lo capiamo subito, è l'anticristo in potenza. Ovviamente, non ce la fa, abbattuto dai colpi della polizia prima di riuscire a affondare il coltello nelle carni dell'infante.
Da lì, si fa subito un salto in avanti di trent'anni, e si arriva ai tempi del generale Jaruzelski: un giovane prete scende da un bus nel mezzo della campagna più desolata e si dirige verso un vecchio monastero, dove il tempo sembra essersi fermato e l'atmosfera non è delle più rassicuranti.
Noi, che siamo spettatori smaliziati, intuiamo subito che quel giovane prete è il bambino del prologo. E ci sorprendiamo un po', quindi, nel vederlo in abito talare, e ancor più nel sapere che in quel monastero è una specie di ricovero per indemoniati (una versione "antica", se vogliamo della struttura di Boston del recente Gli occhi del diavolo) e che lì si compiono esorcismi.
Le cose si complicano quando, nel giro di pochi minuti, capiamo anche che quel protagonista in realtà non è un prete, e che in quel monastero così inquietante e carico di segreti è stato spedito per compiere delle indagini di polizia.
Un'indagine, quindi. In un monastero che pare rimasto al Medioevo.
Se ci dimentichiamo per un attimo il prologo, e il fatto che il nostro protagonista odora un po' di zolfo, Hellhole potrebbe sembrare una sorta di rivisitazione postmoderna e orrorifica del Nome della Rosa, con tutti i suoi intrighi tra frati, e le stranezze, e i misteri che si rincorrono tra celle e corridoi, passando per antichi manoscritti.
Il che già potrebbe essere sufficiente per accreditare a questo film di Bartosz M. Kowalski (lo stesso dello slasher Non dormire nel bosco stanotte e del suo sequel, sempre tutti su Netflix) una buona dose di originalità nel declinare un genere, l'esorcistico, che sembra oramai aver detto tutto ciò che aveva da dire.
In più ecco che il regista polacco gioca con gli elementi e le situazioni più riconoscibili del genere in una maniera che da un lato riesce a proporli nuovamente, con una personalità e un rispetto per le regole che stanno tutto nell’abilità e nell’efficacia dell’uso del cinema; e che dall’altro si mostra consapevole della necessità di superarle, queste regole, e questi elementi e situazioni “classici”, piazzando sempre qualche scarto, qualche deviazione, qualche rottura di passo. Spingendo così il film verso quella che è un’identità chiaramente personale, e difficilmente definibile nel suo essere multiforme.
L’atmosfera generale è cupa, oppressiva, e malsana.
Specie in quei momenti in cui il protagonisti e gli altri frati sono riuniti per i pasti: impegnati - è proprio il caso di dirlo - nel consumare una sbobba che è ributtante solo a guardarla, e che pare creare problemi a più di uno dei commensali (a questo proposito, penso sia curioso e utile sottolineare come Hellhole, in originale, sia intitolato Ostatnia Wieczerza, ovvero “l’ultima cena”).
Fatto sta, sbobba o non sbobba, che allo stomaco Hellhole arriva a più riprese, mirando con astuzia direttamente lì, anche se i suoi colpi migliori sono colpi tutti intellettuali: sia nel modo in cui lavora sul genere, trovando perfino spazio, in un momento davvero poco usuale e atteso, per un’ironia grottesca che lascia piacevolmente spiazzati, sia nei ragionamenti che pare portare avanti, senza mai esagerare, su questioni ideologiche, politiche e perfino teologiche, lavorando su questioni come gerarchie, obbedienza a un dogma, ambizione e perfino, nel complesso, di cosa sia davvero il Male e cosa - se esiste - il Bene.
A portare avanti queste questioni, in Hellhole, non sono mai le parole, che anzi sono pochissime, e per questo tutte estremamente significative.
Tutto quello che Kowalski ci vuole dire che lo dice con le immagini, con le luci, con il movimento degli attori in uno spazio che assomiglia a quello di un incubo. E con un finale potente e misterioso, che pare strizzare l’occhio a Lovecraft mentre gioca con i sensi e l’intelletto dei suoi spettatori.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival