Happy Holidays: la recensione del film politico e lucido di Scandar Copti
Con passione e intelligenza il regista palestinese Scandar Copti racconta due famiglie, una ebrea e l’altra palestinese, che abitano in Israele. La recensione di Carola Proto.
Evitando di addentrarci in un'arringa contro la Guerra di Gaza e le sue atrocità, vogliamo cominciare dalla fine di Happy Holidays, o meglio da una dichiarazione di Scandar Copti che potrebbe riassumere il messaggio del film, e vogliate perdonarci l'uso della parola "messaggio", ormai invisa a tanti utenti e lettori. "Nessuno è libero" - spiega il regista e sceneggiatore - "fino a quando tutti non saranno liberi da qualsiasi forma di oppressione politica, sociale e culturale".
Questa affermazione, non c'è bisogno di dirlo, si scontra inevitabilmente con la realtà e, nel nostro caso, con il racconto della realtà, che è poi la storia di due famiglie - una più numerosa e l'altra più ridotta, una araba e l'altra israeliana - che vivono ad Haifa, la terza città in ordine di grandezza dello stato israeliano. La nostra storia è lontana dal campo di battaglia e "intima" perché girata prevalentemente in interni con due camere a mano che si incollano ai personaggi e ne filmano spesso il viso o dettagli del corpo. La nostra storia è anche semplice. perché è sempre la stessa per due ore di film ma viene raccontata, aggiungendo via via nuove scene e informazioni, da quattro punti di vista diversi che corrispondono a quattro personaggi: il palestinese Rami, che entra in crisi quando la sua fidanzata ebrea Shirley decide di non abortire e di tenere il bambino che aspettano; sua madre Hanan, che deve far fronte alle difficoltà finanziarie della famiglia proprio quando una delle sue figlie sta per sposarsi; Miri, che ha una figlia che soffre di depressione e che non riesce ad accettare che sua sorella Shirley aspetti un figlio da un palestinese; Fifi, che è la figlia di Hanan e che dopo un incidete tenta di nascondere la sua cartella clinica tanto ai suoi genitori quando al suo ragazzo Walid.
Che credano in Dio o in Allah, in una società militarizzata o in un aldilà dove scorrono fiumi di miele, Rami, Miri, Hanan e Fifi vivono una vita regolata da un sistema rigido di ricompensa e punizione che fa parte di una cultura che in realtà è una subcultura, nella quale l'onore e l'apparenza contano molto più del libero arbitrio e dell'affermazione individuale. Inutile dire che a farne le spese sono soprattutto le donne, soffocate da una mentalità patriarcale che obbliga alla sottomissione o, come nel caso di Fifi, a una doppia vita. Scandar Copti non dice chi siano i buoni e chi i cattivi del film, ma registra ovunque una stonatura e l'incapacità di ognuno di vivere secondo i propri bisogni più profondi e autentici. I personaggi principali, quindi, non sono che pedine mosse da forze politiche, razziali, sociali ed economiche, e c'è ben poco che possa impedirlo. Rami, Hanan, Miri e Fifi si dibattono insomma come pesci fuor d'acqua, mentre cercano di giustificare le loro azioni. In un simile contesto, il conflitto tra popoli, genitori e figli o fidanzati nasce perciò da una diversa percezione della realtà. Il problema è che sembra impossibile decidere chi abbia ragione: forse nessuno, e lo si capisce dalla decisione del regista di mandare avanti ogni segmento narrativo fino a un momento prima dell'esplosione o della svolta, lasciandoci sospeso il pubblico. Ciò non significa che Copti non ami le sue creature, ma semplicemente preferisce evitare ogni giudizio, rendendole tragicamente uguali. A ciò si aggiunge lo stile documentaristico di Happy Holidays, che svela la presenza di un narratore certamente non onnisciente ma comunque consapevole dei mala tempora che currunt.
Dal documentario il film prende in prestito i non attori, che però, quando arrivano sui suoi set, sono ben preparati grazie a un lungo lavoro preliminare. in questo caso hanno anche beneficiato della decisione di Copti di utilizzare una troupe leggera e di girare con la luce naturale. Ne deriva un forte senso di verità, che ben si sposa con l’umanità dei protagonisti, in particolare di Hanan, che si ostina a spendere e spandere per le nozze della figlia. È veramente sottomessa? No, ma anche lei annaspa, o meglio entra in crisi quando il mondo smette di essere come lei lo vorrebbe. E allora forse l’unica speranza del film è in Fifi, che almeno prova a vivere assecondando la sua natura di outsider. Ma forse outsider non è il termine giusto, perché nel film essere liberi significa essere misconosciuti e allontanati dai propri cari, e allora sarebbe meglio parlare di outcast, che significa emarginati, reietti, esclusi.
Un’altra cosa ci piace moltissimo di Happy Holidays: il fatto che a contare, in molte scene, sia ciò che accade sullo sfondo, proprio come capitava nei vecchi film grazie alla profondità di campo. Attraverso questa scelta, ma non solo, Scandar Copti si conferma così un regista attento e capace di registrare anche i minimi cambiamenti, le reazioni impreviste e le intenzioni, in primis il desiderio degli esseri umani di proteggere i loro cari, che però si traduce, specialmente in un paese devastato dai conflitti armati, in un danno, in una ferita che non si rimargina o addirittura nel temuto colpo di grazia.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali