Good Time: recensione del film con Robert Pattinson in concorso al Festival di Cannes 2017
Un B-Movie da festival, senza scrittura e con poca personalità.
Tutto in una notte, ancora una volta.
Anche in maniera un po' approssimativa, però, perché Good Time parte ben prima che su New York City faccia buio, e finisce come non poteva non finire quando il sole è già tramontato da un po'.
Giorno o notte che sia, però, di certo c'è che vanno sempre di corsa, i fratelli Josh e Benny Safdie, che dirigono a quattro mani, mentre si separano per montaggio e sceneggiatura, e con Benny anche attore.
Di corsa, anzi, va Robert Pattinson, che prima cerca il modo di pagare la cauzione al fratello handicappato mentale, arrestato dopo una rapina andata male all'inizio del film, e poi cerca di tirarlo fuori dall'ospedale dove è stato ricoverato dopo un pestaggio subìto in carcere. Va di corsa, tanto di corsa che s'incasina la vita da solo, sbaglia persone, prende strade sbagliate, mentre il tempo scorre e il fratellino se la rischia.
Va ammesso che i Safdie, beniamini di molti cinefili festivalieri, sappiano girare bene, abbiano uno stile incisivo e hanno azzeccato la potente colonna sonora del film, firmata da Oneohtrix Point Never, che ben rispecchia la voglia del film di piazzarsi a cavallo tra il cinema d'azione ruvido degli anni Settanta e quello adrenalinico e ipercienetico dei nostri giorni.
Che però Good Time sia un film divertente, o che i giovani registi abbiano una firma originale e riconoscibile, ce ne passa.
Tralasciando l'abituale rigidità espressiva di Pattinson (qui anche costretto da esigenze di copione, e forse non solo, a farsi a un certo punto biondo platino), quello che colpisce davvero di Good Time è il fatto di essere, magari anche volutamente, un film di pura superficie, dove la trama è solo un pretesto per la messa in scena: che va benissimo, ci mancherebbe altro, se lo stile è all'altezza e capace di tener viva l'attenzione dello spettatore.
Ma Good Time assomiglia a troppe cose, i Safdie a troppi altri registi. Il loro è un B-Movie, certo, ma con pretese d'autore, con la voglia di elevarsi sopra tanto genere hollywoodiano fatto apposta per le sale.
I Safdie vogliono e sono ai festival, ne hanno diritto, ma peccano in qualche modo di arroganza, coi loto tagli, le loro luci, le loro inquadrature. Belle, eh, ma derivative. Efficaci, eh, ma coperta corta per l'assenza di una sostanza che, corsa dopo corsa, si fa sentire un po' troppo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival