Gloria Mundi: recensione del nuovo dramma di Robert Guédiguian in concorso al Festival di Venezia 2019
Uno sguardo su una famiglia fra conflitti e il rischio di finire fra i nuovi poveri.
Robert Guédiguian è sempre a favore degli ultimi. Le persone, e quindi i personaggi, che ama sono quelli sfortunati, respinti da una società che li opprime. Che sia un paesino di provincia o la sua natìa e amata Marsiglia, a costo di raccontare come lo spietato sfruttatore economico, il perpetratore dell’oppressione per lui quotidiana dell’uomo sull’uomo, da buon comunista ortodosso, sia una sorella contro un’altra sorella, e con loro mariti e famiglie che si dividono e rischiano di combattersi.
Dopo aver raccontato una Casa sul mare, riuscendo anche lì a regalare uno spaccato di serie generazioni all’interno di una famiglia allargata, trovando modo di dare la sua zampata sociale da irriducibile scudiero dei più deboli, torna nella sua Marsiglia, sempre con la moglie Ariane Ascaride capofamiglia, ancora una volta con Jean-Pierre Darroussin come compagno di vita. Gloria Mundi, questo è il titolo, ma se vi si venisse in mente una storia che regali una visione positiva della vita e dei rapporti fra noi comuni mortali, sappiate che non è così, come ci fa capire la scritta più piccola che appare prima del titolo. Due parole, ben conosciute: Sic Transit.
Guédiguian si affida al racconto di una famiglia in un segmento di vita, un ciclo che inizia con una nuova vita e finisce con una morte. Due sorelle divise dal ruolo sociale: una dal lavoro precario che ha avuto una bambina (Gloria, ovviamente), con un compagno che non riesce a portare a casa uno stipendio decente, l'altra non ci pensa nemmeno a un figlio, per pensare alla carriera, un business in espansione di negozi di telefonini usati che gestisce con il compagno. Poi c’è la madre delle due, la Ascaride, che lavora nel porto di Marsiglia, un classico, oltre al nuovo compagno (Darroussin) che guida l’autobus. Un proletariato urbano come tanti, dipinto come sempre sul filo della sopravvivenza, fra i tanti lavoratori lle prese con la rapacità del capitalismo (precario) selvaggio di oggi, a un paio di colpi di sfortuna o scudisciate dei poteri forti dal passare al di sotto della soglia di sopravvivenza. La disperazione di subire li porta a vivere (o subire) il sesso come strumento di potere, a umiliarsi per evitare che i più giovani si mettano nei guai con la giustizia.
Un film rigidamente ideologico dall’ultimo irriducibile marxista del cinema francese, con uno schematismo che talvolta soffoca l’altro aspetto classico del cinema del regista francese di origine armena: l’umanità dei suoi personaggi. Lo dimostra una caduta agli inferi fin troppo insistita, una sequela di sfortune e persecuzioni francamente poco verosimili, oltre al ruolo del precedente compagno della Ascaride, appena uscito di carcere dopo molti anni. Chi ha successo vuole schiacciare gli ‘sfigati’, e alimenta una perfidia diabolica a colpi di cocaina, la droga borghese. Non certo uno dei migliori film del regista marsigliese, insomma, che lascia il rimpianto per il solito impeccabile Darroussin, che con la sua umanità meno rigida e più laica regala un paio di scene toccanti, convincenti barlumi che ci ricordano il miglior Guédiguian.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito