Glass: la recensione del film di Shyamalan con Bruce Willis, James McAvoy e Samuel L. Jackson
La chiusura di una trilogia sotterranea aperta da Unbreakable.
Il caso Shyamalan continua a essere uno dei dibattimenti più interessanti della Corte Suprema dell’appassionato di cinema da molti anni a questa parte. Lanciato a cavallo del secolo dallo sconvolgente quanto inatteso successo de Il sesto senso, negli anni successivi si è creato la solida credibilità di Autore, fra i pochi capaci a Hollywood di coniugare autonomia creativa e qualità con la spendibilità commerciale. Il suo marchio di fabbrica era il finale a sorpresa e dopo l’arrivo di film come Unbreakable, Signs, The Village, sono fioccati attestati di stima e paragoni con maestri veri come Hitchcock o Steven Spielberg. La sua contea intorno a Philadelphia era la terra d’elezione dei suoi eroi, come Manhattan per Woody Allen. Non che siano passati cent’anni, però, ma al massimo una quindicina, quando l’insuccesso di Lady in the Water ha innescato l’inversione di tendenza, l’inizio dell’inabissamento critico e di immagine, con lo scatenarsi di chi aveva prima gridato al grande autore. E venne il giorno sembrava una parodia del suo cinema, e non aiutarono i flop successivi di lavori dimenticabili come L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth.
Anni complessi, quelli di inizio decennio, per l’autore di origine indiana, che è ripartito dall’horror a basso budget di The Visit e poi Split, dalla factory del Corman dello spavento intelligente degli ultimi anni: Jason Blum. Ma qual è il vero volto di Shyamalan, la vera personalità, per dirla con il protagonista di Split, suo film della riscossa con un incasso che ha superato di 30 volte il budget? La vendetta l’ha voluta servire fredda, pianificando una trilogia che creasse una fusione, inattesa, con la forza prorompente dei finali dei suoi primi film, fra Unbreakable, con i suoi due protagonisti, l’invincibile e il fragile uomo di vetro, e proprio Split.
Il problema è che il cinema dello Shyamalan dei primi anni era giocato sulla creazione lenta e inesorabile della tensione, rispondeva ai dettami più classici nel far montare l’interesse e una certa angoscia nello spettatore, era tutto sussurrato con eleganza, quando in Split, e ora in Glass, è tutto urlato, ormai esplicitato e diluito. Non è più tempo per la seducente origin story del Supereroe del fumetto, e del suo Antieroe, intesi con la maiuscola, regalata in Unbreakable, ma scendiamo sul terreno ben più prosaico e tante volte già visto del combattimento fra alcuni di loro, neanche ben caratterizzati, in cui oltretutto la complessità è talmente annullata che le tante personalità del Kevin Crumb psicopatico di Split vengono essenzailmente ridotte a quella sovrumana della Bestia.
L’alchimista Shyamalan tenta di negare l’inaridimento della sua vena creativa post 2005 chiudendo una trilogia che unisce un lavoro raffinato, esistenziale e filosofico, come Unbreakable, con il materiale di genere da discreto artigiano che costituisce l’ossatura, fragile come quella dell’uomo di vetro, di Glass. Il risultato potrà anche accontentare per qualche trovata ben congegnata e un’abilità formale innegabile, ma si intravede solo quel talento di narratore che faceva letteralmente perdere l’equilibrio nello spettatore, incapace di intuire cosa sarebbe successo nella scena successiva.
M. Night Shymalan è rinato, quindi, con la sua bella e luccicante nuova patente di credibilità commerciale a Hollywood, ma la nostalgia per i suoi splendidi primi lavori rimane intatta.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito