Girls on Wire, la recensione: il mix di generi di Vivian Qu in concorso alla Berlinale

17 febbraio 2025
3.5 di 5

La regista di Angels Wear White torna con un film che mescola il melodramma familiare con il gangster movie, l’azione, perfino la commedia. C’è pure una bella spolverata di wuxiapian, e c’è il metacinema. La recensione di Gilrs on Wire di Federico Gironi

Girls on Wire, la recensione: il mix di generi di Vivian Qu in concorso alla Berlinale

“Per forza noi cinesi siamo sempre nella confusione, guarda con quante forze abbiamo a che fare: buddismo, confucianesimo e taoismo con tutte le sue alchimie e stregonerie. Prendiamo quello che vogliamo e lasciamo il resto: come nei tuoi piatti misti”. È una citazione di un capolavoro, Grosso guaio a Chinatown. Lo dice Egg Chen, ma l’adattamento italiano dei dialoghi ha uno esagerato col verbo iniziale: Egg Chen non parla di confusione, ma di come i cinesi “mischino sempre tutto”.
Cosa c’entra questo con Girls on Wire? C’entra, perché nel suo film Vivian Qu (quella di Angels Wear White) mischia tutto: come spesso avviene nel cinema cinese, o orientale in generale.

Girls on Wire è un melodramma familiare mischiato con il gangster movie, l’azione, perfino la commedia. C’è pure una bella spolverata di wuxiapian, e c’è il metacinema, che tra le altre cose ci permette di ammirare come funzioni il famoso wire work che, in tanti film, permette ai personaggi di volteggiare in aria in barba a ogni noiosa e occidentale legge di gravità. Il titolo, in fondo, non sta lì per caso.
C’è però anche un doppio significato: perché Tian Tian e Fang Di, cugine cresciute come sorelle fino a quando la complessità della loro famiglia e della loro vita le ha allontanate, sono in qualche modo due personaggi appesi a un filo, in precario equilibrio tra successo e fallimento, vita e morte (il discorso fila anche se consideriamo l’originale cinese, traducibile con “le ragazze che volevano volare”).

Fang Di, che sognava di diventare attrice, è una stuntwoman che vive e lavora a Film City, una sorta di Cinecittà cinese sulla costa orientale della Cina, 300 km a sud di Shanghai. È lì che Fang Fang la va cercare dopo essere fuggita, all’inizio del film, da dei carcerieri che la tenevano prigioniera e la drogavano con la stessa eroina da cui il padre è stato dipendente per decenni, da quando era una bambina, portando rovina su di sé e su tutta la famiglia. In questa Cina-cinecittà arrivano anche dei gangster, sulle tracce della fuggitiva, che sono al soldo dello stesso boss cui Fang Di deve dei soldi dopo averne presi in prestito per cercare di salvare l’azienda di famiglia, devastata dai vizi dello zio e dalla testardaggine della madre.

Vivian Qu mescola anche i piani temporali, aprendo di continuo finestre in 4:3 sul passato comune delle due protagoniste per svelare sequenza dopo sequenza i motivi di quello che accade nel presente, le ruggini, le difficoltà, i malintesi. Passato e presente si rispecchiano l’uno nell’altro, si sostengono, e amplificano le rispettive emozioni. A volte, ci si mette anche cinema nel cinema, a giocare a questo giochino, perfino nel finale. Finalissimo.
La costruzione narrativa, piaccia o meno la storia, è precisa e funzionante, ma Girl on Wire è anche bello da vedere: l’aspetto del film si adatta al racconto di due epoche diverse, non solo nel formato, e Vivian Qu azzecca - col supporto del direttore della fotografia Zhang Chaoyi - una serie di inquadrature davvero notevoli, che colpiscono lo sguardo e ci si aggrappano.

Magari quel che manca a Girl on Wire è la capacità di andare davvero in profondità: nei sentimenti, nei generi, nel coraggio di elaborare fino in fondo la mescolanza e la messa in scena. E magari non tutto, in questo gran calderone di stili e personaggi e situazioni, è per il gusto di tutti. Ma, come diceva Egg Chen, possiamo fare come di fronte ai piatti misti: prendiamo quello che vogliamo e lasciamo il resto (che poi è pure poco).



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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